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Morto Cesare Romiti, il manager che fu presidente e AD della Fiat e braccio destro di Giagni Agnelli aveva 97 anni

Ultimo Aggiornamento: 19/08/2020 18:35
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19/08/2020 18:35
 
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E' morto Cesare Romiti,
manager che ha fatto la storia dell'economia italiana



Si è spento al'età di 97 anni il "Grande Vecchio" del capitalismo del nostro Paese, legato in modo inscindibile alla Fiat


di FRANCESCO MANACORDA

Cesare Romiti se n'è andato a un passo dal secolo di vita - aveva compiuto 97 anni il 24 giugno - e con lui scompare un uomo pienamente radicato nel secolo scorso. Grande manager, e poi imprenditore in proprio con minore successo, la sua storia resterà legata indissolubilmente ai venticinque anni passati in Fiat, dove arriva nel 1974 e che lascia nel 1998 dopo esserne stato amministratore delegato e presidente. Alla Camera di commercio di Milano domani sarà allestita la camera ardente, i funerali si svolgeranno giovedì a Cetona, in Toscana, in forma privata.

Si dice Romiti e si pensa ovviamente Gianni Agnelli. Dell'Avvocato il manager romano, arrivato a Torino dopo esperienze nella chimica e nel mondo delle Partecipazioni statali, dove guida tra l'altro Alitalia e le costruzioni di Italstat, è stato uomo di assoluta fiducia e talvolta alter ego, sebbene sempre in un rapporto segnato dalla consapevolezza comune di una profonda distinzione di ruoli.

L'ascesa in Fiat

Romiti arriva a Torino nel 1974, in piena crisi petrolifera, spinto dalla stima che ha per lui Enrico Cuccia. Il patron di Mediobanca lo ha conosciuto durante la fusione tra la Bomprini Parodi Delfino e la Snia Viscosa ed è rimasto colpito da quel manager che parla chiaro, a volte perfino troppo. Per questo, da eterno tessitore delle vicende del capitalismo italiano, Cuccia lo consiglia alla famiglia Agnelli, che vede in quel momento la Fiat fare i conti con la crisi petrolifera, come uomo adatto a riportare i conti a posto. A Corso Marconi un Romiti già manager affermato e più che cinquantenne, si trova in un coinquilinato tutt'altro che tranquillo. Quando nel 1975 viene nominato amministratore delegato per la parte finanziaria deve dividere la carica con Umberto Agnelli e soprattutto con Carlo De Benedetti, che da proprietario del fornitore Fiat Gilardini cede le sue azioni e prende in cambio una quota dell'azienda automobilistica.

Le personalità spigolose di Romiti e De Benedetti non sono fatte per andare a lungo d'accordo e infatti dopo solo cento giorni di triumvirato il secondo lascia la Fiat cedendo le sue azioni e aprendo un conflitto in fondo mai sanato con gli Agnelli. Sull'interpretazione autentica di quell'uscita tra i due rimarrà sempre una diatriba aperta: per Romiti De Benedetti pagò il desiderio di essere l'uomo solo al comando, venendo in sostanza esautorato dalla proprietà; nella ricostruzione più volte offerta da De Benedetti - al contrario -la scelta di lasciare la Fiat fu solo sua, specie dopo che lo stesso Avvocato aveva respinto la sua richiesta di tagliare circa 20 mila posti di lavoro per far fronte al periodo di crisi.

De Benedetti è fuori, Romiti resta a Corso Marconi, dove il suo potere aumenta in modo esponenziale nel corso di cinque anni. Un primo passo è nel 1976, quando conduce assieme ad Agnelli l'ingresso della Lafico - la finanziaria del governo libico guidato dal dittatore Muammar Gheddafi - nel capitale del gruppo automobilistico. La Fiat ha bisogno di soldi e la Libia ricca di petrolio ne ha; quel che è più difficile è far passare l'ingresso come socio finanziario di un governo inviso in primo luogo agli Stati Uniti. Ma l'operazione riesce, i soldi servono per il rilancio e quando i libici escono nel 1986 con il loro investimento sostanziosamente rivalutato la soddisfazione è reciproca.

La Marcia dei quarantamila

Il secondo passo avviene nel 1980. La crisi petrolifera continua, la Fiat nella sua relazione di bilancio agli azionisti punta il dito sulle politiche economiche del governo e sugli scioperi nelle fabbriche. Mediobanca, ancora impegnata in un compito di ingombrante tutela del sistema industriale italiano, convince gli Agnelli che è il momento che Umberto lasci la carica di amministratore delegato. Romiti è un uomo solo al comando. Vince in azienda, e vince anche lo scontro di idee che da anni - sostiene - paralizza la Fiat. C'è infatti Romiti dietro la Marcia dei quarantamila che il 14 ottobre di quell'anno invade piazze e corsi di Torino con i "quadri Fiat" per la prima volta in corteo: chiedono di tornare a lavorare, protestano contro i picchetti sindacali che impediscono l'accesso alle fabbriche in un braccio di ferro durissimo con l'azienda che vuole mettere in cassa integrazione 23 mila dipendenti. E' uno snodo non solo nelle relazioni industriali, ma nella storia della fabbrica più grande d'Italia e dell'Italia stessa, che scopre quel giorno la sua maggioranza silenziosa. E uno snodo al quale lo stesso Romiti, intervistato da Paolo Griseri trent'anni dopo su questo giornale, parla di un "esito che fu quello di riportare i sindacati di allora a una situazione di normalità, superando le infiltrazioni terroristiche che stavano nella loro base", ripetendo una tesi a lui cara che aveva già espresso in un celebre libro-intervista con Gianpaolo Pansa.

Il decennio degli '80 è quello che pare destinato a una crescita inarrestabile. Nel 1988, reduce da quattro anni di bilanci record e a quel punto maggiore e più redditizio produttore europeo, la Fiat compra anche l'Alfa Romeo dall'Iri - guidato da Romano Prodi - che avrebbe però preferito venderla alla Ford. Meno fortunata l'espansione internazionale di Torino: nel 1990 le carte sono pronte per un merger con l'americana Chrysler, la più piccola delle "Big Three" di Detroit. Al Dottore, come lo chiaamno a Torino, l'affare sembra buono, ma gli azionisti - in particolare Umberto Agnelli - sono dubbiosi di fronte a un mercato che rischia presto di virare al brutto. L'affare sfuma.

La tensione con Umberto Agnelli si acuisce. Quando nel '92 l'Avvocato fa sapere che l'anno successivo cederà la carica di presidente al fratello, interviene un altro aumento di capitale suggerito da Mediobanca e la coppia di vertice rimane immutata fino al 1996, quando Gianni Agnelli passa la presidenza proprio a Romiti, che la manterrà fino ai 75 anni, ossia al 1998.

"Grande Vecchio" del capitalismo italiano

Nel frattempo il manager si è trovato anche a fare i conti con Mani Pulite: nel 1993 viene interrogato a lungo dal pool di Milano e poi dai magistrati torinesi, fa ammissioni importanti, ma riferisce anche di non aver saputo nulla di quanto accadeva sotto di lui. Il manager Fiat Francesco Paolo Mattioli viene arrestato e condannato per tangenti. Nel 2000 la Cassazione conferma a Romiti una condanna per falso in bilancio, finanziamento illecito dei partiti e frode fiscale. La condanna per falso in bilancio viene poi revocata dalla Corte d'Appello di Torino tre anni dopo.

Gli errori di Romiti? Nelle tante interviste concesse in un decennio e più in cui è stato interpellato come Grande Vecchio del capitalismo italiano, lui stesso ha avuto modo di farne una disamina esaustiva, accanto alla rivendicazione di molti successi. I principali che ha riconosciuto a fine carriera sono stati il desiderio di trasformare la Fiat in un conglomerato che non si occupasse solo di auto, ma si espandesse anche in settori come l'aerospazio o i trasporti ferroviari, indebolendo probabilmente il focus sul mestiere dell'auto; e poi la stessa ambizione replicata quando, uscito da Torino, Romiti viene liquidato con una quota della Gemina che controlla tra l'altro Impregilo e la Rcs editrice del Corriere della Sera.


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Cesare Romiti se n'è andato a un passo dal secolo di vita - aveva compiuto 97 anni il 24 giugno - e con lui scompare un uomo pienamente radicato nel secolo scorso. Grande manager, e poi imprenditore in proprio con minore successo, la sua storia resterà legata indissolubilmente ai venticinque anni passati in Fiat, dove arriva nel 1974 e che lascia nel 1998 dopo esserne stato amministratore delegato e presidente. Alla Camera di commercio di Milano domani sarà allestita la camera ardente, i funerali si svolgeranno giovedì a Cetona, in Toscana, in forma privata.

Si dice Romiti e si pensa ovviamente Gianni Agnelli. Dell'Avvocato il manager romano, arrivato a Torino dopo esperienze nella chimica e nel mondo delle Partecipazioni statali, dove guida tra l'altro Alitalia e le costruzioni di Italstat, è stato uomo di assoluta fiducia e talvolta alter ego, sebbene sempre in un rapporto segnato dalla consapevolezza comune di una profonda distinzione di ruoli.
L'ascesa in Fiat
Romiti arriva a Torino nel 1974, in piena crisi petrolifera, spinto dalla stima che ha per lui Enrico Cuccia. Il patron di Mediobanca lo ha conosciuto durante la fusione tra la Bomprini Parodi Delfino e la Snia Viscosa ed è rimasto colpito da quel manager che parla chiaro, a volte perfino troppo. Per questo, da eterno tessitore delle vicende del capitalismo italiano, Cuccia lo consiglia alla famiglia Agnelli, che vede in quel momento la Fiat fare i conti con la crisi petrolifera, come uomo adatto a riportare i conti a posto. A Corso Marconi un Romiti già manager affermato e più che cinquantenne, si trova in un coinquilinato tutt'altro che tranquillo. Quando nel 1975 viene nominato amministratore delegato per la parte finanziaria deve dividere la carica con Umberto Agnelli e soprattutto con Carlo De Benedetti, che da proprietario del fornitore Fiat Gilardini cede le sue azioni e prende in cambio una quota dell'azienda automobilistica.

Romiti, il "manager di ferro" leader della linea dura antisindacale

Le personalità spigolose di Romiti e De Benedetti non sono fatte per andare a lungo d'accordo e infatti dopo solo cento giorni di triumvirato il secondo lascia la Fiat cedendo le sue azioni e aprendo un conflitto in fondo mai sanato con gli Agnelli. Sull'interpretazione autentica di quell'uscita tra i due rimarrà sempre una diatriba aperta: per Romiti De Benedetti pagò il desiderio di essere l'uomo solo al comando, venendo in sostanza esautorato dalla proprietà; nella ricostruzione più volte offerta da De Benedetti - al contrario -la scelta di lasciare la Fiat fu solo sua, specie dopo che lo stesso Avvocato aveva respinto la sua richiesta di tagliare circa 20 mila posti di lavoro per far fronte al periodo di crisi.

De Benedetti è fuori, Romiti resta a Corso Marconi, dove il suo potere aumenta in modo esponenziale nel corso di cinque anni. Un primo passo è nel 1976, quando conduce assieme ad Agnelli l'ingresso della Lafico - la finanziaria del governo libico guidato dal dittatore Muammar Gheddafi - nel capitale del gruppo automobilistico. La Fiat ha bisogno di soldi e la Libia ricca di petrolio ne ha; quel che è più difficile è far passare l'ingresso come socio finanziario di un governo inviso in primo luogo agli Stati Uniti. Ma l'operazione riesce, i soldi servono per il rilancio e quando i libici escono nel 1986 con il loro investimento sostanziosamente rivalutato la soddisfazione è reciproca.
La Marcia dei quarantamila
Il secondo passo avviene nel 1980. La crisi petrolifera continua, la Fiat nella sua relazione di bilancio agli azionisti punta il dito sulle politiche economiche del governo e sugli scioperi nelle fabbriche. Mediobanca, ancora impegnata in un compito di ingombrante tutela del sistema industriale italiano, convince gli Agnelli che è il momento che Umberto lasci la carica di amministratore delegato. Romiti è un uomo solo al comando. Vince in azienda, e vince anche lo scontro di idee che da anni - sostiene - paralizza la Fiat. C'è infatti Romiti dietro la Marcia dei quarantamila che il 14 ottobre di quell'anno invade piazze e corsi di Torino con i "quadri Fiat" per la prima volta in corteo: chiedono di tornare a lavorare, protestano contro i picchetti sindacali che impediscono l'accesso alle fabbriche in un braccio di ferro durissimo con l'azienda che vuole mettere in cassa integrazione 23 mila dipendenti. E' uno snodo non solo nelle relazioni industriali, ma nella storia della fabbrica più grande d'Italia e dell'Italia stessa, che scopre quel giorno la sua maggioranza silenziosa. E uno snodo al quale lo stesso Romiti, intervistato da Paolo Griseri trent'anni dopo su questo giornale, parla di un "esito che fu quello di riportare i sindacati di allora a una situazione di normalità, superando le infiltrazioni terroristiche che stavano nella loro base", ripetendo una tesi a lui cara che aveva già espresso in un celebre libro-intervista con Gianpaolo Pansa.

"La marcia dei quarantamila", il docufilm con Romiti sulla protesta contro i picchetti degli operai Fiat
Il decennio degli '80 è quello che pare destinato a una crescita inarrestabile. Nel 1988, reduce da quattro anni di bilanci record e a quel punto maggiore e più redditizio produttore europeo, la Fiat compra anche l'Alfa Romeo dall'Iri - guidato da Romano Prodi - che avrebbe però preferito venderla alla Ford. Meno fortunata l'espansione internazionale di Torino: nel 1990 le carte sono pronte per un merger con l'americana Chrysler, la più piccola delle "Big Three" di Detroit. Al Dottore, come lo chiaamno a Torino, l'affare sembra buono, ma gli azionisti - in particolare Umberto Agnelli - sono dubbiosi di fronte a un mercato che rischia presto di virare al brutto. L'affare sfuma.

La tensione con Umberto Agnelli si acuisce. Quando nel '92 l'Avvocato fa sapere che l'anno successivo cederà la carica di presidente al fratello, interviene un altro aumento di capitale suggerito da Mediobanca e la coppia di vertice rimane immutata fino al 1996, quando Gianni Agnelli passa la presidenza proprio a Romiti, che la manterrà fino ai 75 anni, ossia al 1998.

"Grande Vecchio" del capitalismo italiano
Nel frattempo il manager si è trovato anche a fare i conti con Mani Pulite: nel 1993 viene interrogato a lungo dal pool di Milano e poi dai magistrati torinesi, fa ammissioni importanti, ma riferisce anche di non aver saputo nulla di quanto accadeva sotto di lui. Il manager Fiat Francesco Paolo Mattioli viene arrestato e condannato per tangenti. Nel 2000 la Cassazione conferma a Romiti una condanna per falso in bilancio, finanziamento illecito dei partiti e frode fiscale. La condanna per falso in bilancio viene poi revocata dalla Corte d'Appello di Torino tre anni dopo.

Gli errori di Romiti? Nelle tante interviste concesse in un decennio e più in cui è stato interpellato come Grande Vecchio del capitalismo italiano, lui stesso ha avuto modo di farne una disamina esaustiva, accanto alla rivendicazione di molti successi. I principali che ha riconosciuto a fine carriera sono stati il desiderio di trasformare la Fiat in un conglomerato che non si occupasse solo di auto, ma si espandesse anche in settori come l'aerospazio o i trasporti ferroviari, indebolendo probabilmente il focus sul mestiere dell'auto; e poi la stessa ambizione replicata quando, uscito da Torino, Romiti viene liquidato con una quota della Gemina che controlla tra l'altro Impregilo e la Rcs editrice del Corriere della Sera.

Affiancato dai due figli nell'editoria e nelle costruzioni i risultati sono tutt'altro che brillanti, la parabola del manager che si fa padrone tende a sbiadire. Romiti guarda a Oriente, si dedica con impegno alla Associazione Italia-Cina e guarda con qualche rammarico anche a quella Fiat che non sente più sua, dando giudizi non sempre sereni sull'operato dei successori, Sergio Marchionne compreso.

Fonte: Repubblica
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