| | | OFFLINE | Post: 3.178 | Città: LIVORNO | Età: 62 | Sesso: Femminile | |
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19/08/2009 22:18 | |
di Renato Minore
ROMA (19 agosto) - L’“anziana ragazza” che se n’è andata, classe di ferro 1917, era davvero un personaggio, unico e straordinario. Un personaggio mitico, un mito vero e proprio. Fernanda Pivano per oltre sessanta anni è stata, in senso specialistico, un’americanista. Un’americanista senza cattedra: la nostra accademia non aveva mai saputo approfittare di lei e della sua eccezionale, unica esperienza letteraria; e anzi ne aveva spesso diffidato considerandola una “dilettante” o peggio «il maggiordomo degli scrittori americani».
L’avventura di quella straordinaria “dilettante”, della “signorina perbene” della Torino borghese era iniziata alla fine degli anni Trenta quando Pavese, il suo giovane docente, le diede da leggere Foglie d’erba di Whitman, Addio alle armi di Hemingway, Il figlio di Windy McPherson di Sherood Andersen e l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Quest’ultimo libro fu poi tradotto da lei, per Einaudi, e divenne il testo di poesia che si rincorse da un lettore all’altro e unì le generazioni. E tutte nel segno di quella parola stretta e fulminante che la Pivano aveva saputo travasare, con vera pazienza creativa, nella nostra lingua.
Iniziava così la sua “carriera” di traduttrice di un’infinità di libri, da FaulkNer a Fitzgerald a Geltrude Stein a Poe fino alla cosidetta “beat generation”, Ginsberg, Kerouac, Bourroughs, Corso, Ferlinghetti. E iniziava la sua “carriera” critica, un critico che si definiva in primo luogo fan degli artisti a cui si applicava. La Pivano seppe individuare i più importanti scrittori americani per almeno tre generazioni. Prima Hemingway- Faulkner- Fitzgerald, poi la “Beat generation”, infine i minimalisti, Calver e McInerney. Alle prese con i loro testi e la loro eistenza, mise in atto quel metodo che in bel libro di saggi, Album americano, definisce sociobiografico. Ovvero nei grandi scrittori non esistono barriere tra l’opera e la vita e la critica non è che un racconto, «il racconto si converte a sua volta in vita».
La “ragazzina perbene” seguiva la strada indicatale da Pavese. Usava la traduzione come strumento per avvicinarsi sia alle tecniche espressive degli scrittori amati sia al mondo dal quale provenivano e che raccontavano nei loro libri. Era sedotta dagli ideali di libertà che alcuni di quegli scrittori esprimevano e aveva allargato il campo d’indagine. L’analisi letteraria doveva passare anche attraverso l’ambiente i luoghi il clima politico, era come un «etnologo sul campo invece che in biblioteca». La Pivano sapeva raccontare di amicizie appassionate, innamoramenti letterari fulminei, di pagine come diceva dettate «con l’anima sulle labbra». Divenne così quella straordinaria scrittrice che è stata: tutti i maggiori scrittori americani li abbiamo conosciuti attraverso le sue parole. Il suo metodo era proprio di raccontare con candore e con divertimento i particolari, anche i più personali, di tanti incontri.
In quei saggi che poi confluirono nei Diari (1917-1973), pubblicati due anni fa, c’era di tutto, materia leggera e quasi volatile, scorciata con grazia, misura, entusiasmo nella cornice dello schizzo grafico e della scrittura, stretta e fulminante. Una sorta di memoria involontaria che vaga e si deposita con libertà nei deliziosi cammei dove si sciolgono le figure di Primo Levi, Pavese, Hemingway, Abbagnano, Kerouac, Ginsberg, Corso... C’era la disperazione dell’ultimo Hemingway, il fascino irresistibile e lo humor di Saul Bellow, le disavventure italiane di Jack Kerouac, la vita tormentata di Don DeLillo, Bob Dylan a San Francisco, Gore Vidal nel 1948, Bret Easton Ellis a New York trenta anni più tardi... Fernanda Pivano era guidata da un ideale che lei stessa definiva anacronistico, «l’utopia di una democrazia universale». Un vero e proprio mito e, come tutti i miti, amato soprattutto dai più giovani che sono stati sempre e hanno continuato a essere ancora oggi, i fans più fedeli di quella novantenne ancora lucida e curiosa, con i capelli corti, che accoglieva il visitatore sotto la Marylin dorata di Andy Warhol in una casa zeppa di libri (che poi sono diventati, grazie a Benetton, una biblioteca pubblica milanese di oltre trentacinquemila titoli). Che sapeva parlarti come nessun altro degli scrittori americani, che sapeva dialogare con Jovanotti, che sapeva amare De André, che s’era conservata come «una signorina perbene» mantenendo (come ebbe a scrivere una volta Franco Cordelli) il coraggio, l’entusiasmo, la limpidezza, in una parola la fortezza d’animo. E immacolata tra le rovine «come le scrittrici inglesi di un’altra età, da Ivy Compton Burnett a Barbara Pym».
Sono in molti a ricordare la Pivano a Castelporziano, al festival dei poeti del 1979. C’erano sul palco i suoi amici della Beat Generation. «Il loro successo fu il suo successo: non c’era giovane poeta o giovane lettore di poesia americana, che potesse separare le immagini degli americani da quella del loro anfitrione italiano». A poco a poco così, «la sua vita aveva cominciato a prendere il sopravvento sulle opere, senza ovviamente prescinderne». Era questo il suo mito, e quello resisteva ancora all’ inizio del nuovo millennio, quando Fernanda parlava dell’America che tutte le generazioni hanno amato. O quando ricordava il Ginsberg disperato che urlava: «Io sono un uomo che ha avuto un sogno e lo ha visto fallire». |