Ratzinger aveva nei confronti dell'esegesi biblica la posizione dei non addetti ai lavori, che prendono atto dei risultati senza mettere in questione il metodo. Si era reso perfettamente conto del fatto che il metodo storico-critico, per come lo si intendeva dopo il Concilio Vaticano II, inibiva la fede e mortificava la teologica, minando alla base non soltanto l'inerranza biblica ma perfino la possibilità di fidarsi della Scrittura come testo storico-spirituale. Non più la Chiesa, ma la critica, era chiamata a pronunciarsi sul valore da attribuirsi alla Bibbia. E poiché la critica, in tutti i campi ma specialmente in questo, approda il più delle volte a risultati molto diversi tra loro, la logica deduzione era che, intorno alla Sacra Scrittura, non possiamo essere certi di nulla. Si giunse a situazioni paradossali: all'inizio degli anni Sessanta un prelato dichiarò essere impossibile realizzare un catechismo corredandolo di citazioni bibliche, poiché il senso di queste era stato completamente rimesso in discussione dai nuovi studi esegetici.
È evidente che per un cattolico un simile modo di fare esegesi, che toglie la Bibbia alla Chiesa e ne fa dominio assoluto di un circolo ristretto di esperti, è del tutto inaccettabile. Eppure, se da un lato si è stati netti nel criticarne i risultati, dall'altro si è avuto timore di metterne in discussione i presupposti metodici. Il motivo credo sia da ricercarsi nell'atteggiamento direi quasi gnostico adottato dai moderni esegeti. La scienza interpretativa viene presentata come una disciplina estremamente complessa, intellegibile soltanto da una schiera di iniziati addetti ai lavori. Ai profani compete soltanto prendere atto dei suoi risultati. Naturalmente questa cerchia è autoreferenziale: accoglie chi professa le sue idee di fondo (mantenendo la differenza, essenziale all'esistenza stessa della cerchia, delle idee di superficie), respinge chi le mette in discussione. Oggi l'esegesi si fa non sulla sodezza degli argomenti, ma sul consenso più o meno unanime dei critici. Peccato che, come sosteneva Anatole France, se dieci milioni di persone sostengono una sciocchezza, questa resta una sciocchezza. Il problema è che le voci di dissenso vengono immediatamente messe a tacere. Ricordate la questione del frammento che attestava l'origine di Marco a prima del 50? La critica ufficiale, secondo cui i Vangeli sono redazioni tardive e inattendibili, ne impedì perfino la discussione.
Anche Ratzinger ha subito il complesso di inferiorità che la moderna esegesi ha imposto a tutto ciò che è altro da sé. Ecco perché ne critica i risultati, ma mantiene un certo ossequio verso il metodo. In ciò non trovo nulla di strano, vista l'abilità con la quale gli studiosi hanno condotto l'operazione di autoisolamento. Ci si sarebbe aspettati, se mai, che Ratzinger affrontasse la questione dal punto di vista strettamente teologico, visto che i fondamenti dell'interpretazione biblica sono materia che rientra nell'ambito della teologia fondamentale (de fontibus revelationis). L'esegeta, naturalmente, può e deve servirsi del sussidio delle scienze profane per determinare in maniera sempre più esatta il senso inteso dall'agiografo, ma nel fare questo l'esegeta cattolico non può prescindere da quei princìpi teologici che, essendo oggetto di fede, sono anche norma sicura di verità.
Oggi invece si è completamente slegata la teologia dall'esegesi, togliendo alla prima la caratteristica di elemento fondante della seconda, e alla seconda la natura di fonte della prima. Si è caduti, quindi, nello stesso errore del protestantesimo classico, con l'aggravante della gnosi esegetica.
Va poi precisato che i decreti della Commissione Bibica non richiedono, di per sé, l'assenso della fede se non quando trattano di questioni dottrinali. D'altra parte essi sono espressione della prerogativa, propria della Chiesa cattolica, di determinare la natura del testo sacro non solo in ambito strettamente teologico, ma anche esegetico, poiché non di rado quello dipende da questo (si pensi alla questione dell'autenticità dei Vangeli). È ovvio, quindi, che non se ne può prescindere. L'esperienza, poi, dimostra che si parte dalla libera discussione di questioni puramente esegetiche (ad esempio l'autore o la data di composizione) e si arriva, a partire da queste, alla libera discussione di questioni teologiche (inerranza, attendibilità, valore storico).
La teoria delle due fonti è un chiaro esempio di come un'ipotesi filologica, fondata su dati reali ma approdante a risultati discutibili, sia stata trasformata in dogma critico dal consenso degli studiosi (peraltro solo di area tedesca, visto che in area francese erano in voga altre ipotesi) e utilizzata per giungere a deduzioni di tipo non filologico ma storico e dogmatico (le singole parti del Vangelo sono più o meno attendibili a seconda della loro supposta origine). |