La caduta del tridente

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
LittleTeo
00mercoledì 27 settembre 2006 21:28
Premetto che questa storia è ispirata parzialmente o completamente dalla campagna del gioco "Age of Mytology", perciò se state facendo la campagna centrale di questo gioco, questo racconto potrebbe svelarvi passi di gioco di suspence...

Ambientata nella mitologia greca, ai tempi dell'assedio di Troia, con questa storia spero di ripagarmi per le storie fallite scritte in passato.

Buona lettura! [SM=x329197]

P.S: la storia si prospetta lunga... forse si arriverà fino ai 20-25 capitoli! [SM=x329169]

[Modificato da LittleTeo 27/09/2006 21.30]

LittleTeo
00mercoledì 27 settembre 2006 21:29
Capitolo 1°: Nei miei sogni


Il cielo era rosso scuro, e l’atmosfera cupa. In mezzo al mare si stagliava una montagna, sopra la quale alcuni strane sagome aleggiavano nell’ombra, in un piazzale di piastelle di marmo pregiato d’Egitto, ricamate con mosaici d’oro. Al centro del piazzale c’era un’uomo, alto, robusto, dalla carnagione bianca, i capelli neri, gli occhi neri e penetranti, scalzo, equipaggiato per la guerra: ginocchiere di bronzo ai polpacci, una corazza di ferro rivestita da pelle di cinghiale, una cintura con due pugnali d’argento ed in mano una lunghissima lancia. Era un’atlantideo.

Atlantide, all’epoca, era un’isola oltre le colonne d’Ercole, nel mare che qualcuno, talvolta, chiama “mare cerchiante” od “Oceano Atlantico”; si narrava fosse nata prima delle altre civiltà, e che, dato il suo isolamento dal mondo, avesse raggiunto tecnologie incredibili, oltre ad un potentissimo esercito. Gli atlantidei provavano molto interesse per il mare, soprattutto per quello a est, ove sorgeva il sole. Gli esploratori sui robusti trireme si spingerono sempre più a est, entrando nel mare Nostrum, il mar mediterraneo, delimitato dalle colonne d’ercole; costruirono città, come Tangeri, Siviglia, Picoaenus, e si spinsero sempre più lontano, fino alle coste dell’Italia, dell’isola verde (la Sicilia), sul promontorio d’Africa (dove, secoli dopo, venne fondata Cartagine), fino alla Grecia: ivi, ncontrarono le civiltà elleniche, ed impartirono loro insegnamenti sull’uso del ferro, della ceramica, dell’acqua, la navigazione e il culto degli dei, dai maggiori, Zeus sulimo, il signore dei cieli e del mondo ed Era, sua prima sposa, Poseidone, dio delle acque e dei cavalli, Ade, dio dei morti dei Dèi minori.
La civiltà greca si sviluppo molto velocemente, colonizzando a sua volta i territori nel mediterraneo centrale ed orientale, dove gli atlantidei avevano meno influenza per la lontananza dalla patria. Ma, man mano che il potere della Grecia cresceva, il potere di Atlantide diminuiva, e così era destino.
In questi giorni, tuttavia, atlantide era ancora molto forte: le guerre ai confini erano state sedate, e vecchi nemici uccisi, anche grazi ai grandi ammiragli, validi uomini che avevano un potere assoluto sull’esercito: solo i pirati egiziani, guidati da un certo Kamos, resistevano ancora, dato che la loro base era ben nascosta, ma, nonostante questo, gli attacchi su Atlantide o sulle colonie erano molto deboli. Ma qualcosa stava per cambiare…

L’atlantideo sulla montagna si guardava intorno: le ombre che scorgeva intorno a lui avevano un’aspetto familiare. Alcune assomigliavano a nemici, uccisi in passato, di altri non riusciva a scrutarne il volto. Ad un tratto, con un’immenso bagliore, le ombre scomparirono, e, nel centro del piazzale apparve una figura femminile, rivestita di una corazza d’oro che riflettea l’immensa luce che usciva dai suoi occhi. Era una figura importantissima, una dea, ma l’atlantideo non era per niente intimidito alla sua vista, ne sorpreso o spaventato. Sembrava semplicemente contento.
“Atena!”, la chiamò. Lei perse l’espressione seria che aveva, e si lascio andare in un’enorme sorriso di affetto; “Arkantos!”, rispose.
“Tanto tempo che non ci si rivede, non è vero?” domandò Arkantos
“Forse… ma ora ho cose importanti da dirti”.
Arkantos doveva aspettarselo. Rivedere Atena dopo tanto tempo, non ci poteva essere altro motivo.
La dea continuò nel suo discorso: “Quella ombra che guardavi prima assomigliava a Theris: le solite vecchie battaglie? Possibile che un’ammiraglio di Atlantide non si dedichi ad altro?”
“No… solo vecchi nemici… sembrano essere ancora qui…” rispose Arkantos, dopodichè si girò e abbassò la testa, guardando il mare, dando le spalle ad Atena, sapendo che quello che doveva dirgli non era una buona notizia.
“Hai vinto innumerevoli battaglie contro nemici che nessuno avrebe osato sfidare…”
“Fu molto tempo fa” la interrumpe bruscamente Arkantos; “i pirati di oggi sono poca cosa… non sembra che ci sia nessuno più da sfidare all’altezza di un ammiraglio... le vecchie battagli sopravvivono solo nei miei sogni…”
Ci furono alcuni attimi di pausa, dopodiché Atena, avvicinandosi a lui, disse:
“Ne sei sicuro, atlantideo?”
Arkantos alzò la testa.
“Atlantide ha avuto, ha ed avrà sempre dei nemici… tuoi nemici, Arkantos… nemici della tua casa, di tuo figlio, di tuo padre…”
Arkantos si girò: “Se qualcuno oserà sfidare Atlantide, avrà ben presto posto nei miei sogni!”
Atena sorrise, segno che era quello che voleva che Arkantos dicesse.
L’aria iniziò all’improvviso a diventare luminosa.
“Non abbassare mai la guardia, Arkantos… stai sempre all’erta…”
Ormai la luce era fortissima e non si distingueva quasi più niente; Atena continuò a parlare, ma ormai era impossibile scorgerla.
“Si profilano tempi bui, e c’è bisogno di te…”
Il bagliore bianco era fortissimo, e nulla più si poteva distinguere.
Arkantos iniziò a sentire, in lontananza, una voce che lo chiamava, ma, stavolta, era una voce maschile.
“Signore… emh… si svegli signore…”
Arkantos, improvvisamente, si svegliò. Era sdraiato nella sua amaca, nella sala del capitano della sua nave, la Petcheskos, alla quale era molto legato, avendo combattuto per anni sotto i suoi alberi.
L’ammiraglio si tirò in piedi. Il soldato che era venuto a svegliarlo si era messo sull’attenti.
“Che cosa c’è?” chiese al soldato oplita in tono un po’ assonnato.
“Terra all’orizzonte, signore. Presto saremo ad Atlantide.”
“Ottimo. Puoi andare.” Il soldato iniziò ad arrampicarsi sulle scale che portavano sul ponte.
“Ah, un’ultima cosa” disse Arkantos al soldato, il quale si arrestò immediatamente.
“Sissignore?”
“Cercate di accelerare: spiegate ogni vela, dobbiamo essere ad Atlantide il prima possibile”.
“Sissignore.” Arrivato in cima alle scalette, rivolse di nuovo la parola ad Arkantos, ma stavolta in tono amichevole: “Novità in vista?” chiese sorridendo.
“Sì”, rispose “e non immagini quante.”
LittleTeo
00mercoledì 27 settembre 2006 21:29
Capitolo 2°: Atlantide


La Petcheskos arrivò al porto principale di Atlantide di primo pomeriggio, con la marea. Il porto, rivolto a est, era il più grande di Atlantide, e al suo ingresso si ergeva il faro più grande del mondo, salvo quello di Alessandria d’Egitto; ai piedi del faro si ergeva una delle due statue gemelle: erano due statue raffiguranti il dio Poseidone, protettore di Atlantide, alte più di 25 metri e con un enorme tridente in mano. La seconda era stata costruita davanti al grande tempio di Atlantide, al centro dell’isola.
In genere il porto era sempre pieno di navi da battaglia, ma quel giorno non lo era: Arkantos si stupì di questo, e inizio a pensare che il presagio di Atena si fosse già avverato, anche se ciò sarebbe stato molto strano.
La Petcheskos attracco nei moli centrali, i più difesi, ed anche i più vicini al centro della città.
“Non sembra che siano stati attaccati…” disse Arkantos allo stesso soldato che prima era venuto a svegliarlo.
“No, direi proprio di no…” rispose il soldato “Sembrerebbe che solo le navi da guerra siano sparite… ci sarà qualche esercitazione… oppure una missione…”
“Vorrei sperare che sia la prima cosa che hai detto… non vorrei che Atena fosse apparita nel sonno anche a mio padre, non sarebbe per niente bello…”.
Arkantos si aspettò che il soldato lo guardasse stupito, domandandogli: “Atena ha parlato con voi?” o cose del genere, ma così non fu. Il soldato, il maresciallo di marina Zeto, compagno di Arkantos in mille avventure, continuò a fissare il porto semivuoto della città, come se quello che avesse detto fosse una cosa di assoluta normalità.
Zeto si girò verso Arkantos.
“Ti domandi perché io non sia stupito?” Zeto levò ad Arkantos le parole di bocca “Ebbene, ormai si sa di lei e di Atena… la voce circola tra i marinai, sapete… pensavo fosse soltanto una storiella per marmocchi… sapete, non credo a certe cose… ma mi sono dovuto convincere quando è apparsa anche…” Zeto si accorse di avere detto tre parole di troppo.
“A-anche a te?” chiese incredulo Arkantos.
Zeto annuì, abbassando il capo.
“E… quando mi hai svegliato, anche Atena aveva…”
“Si, so tutto.” rispose bruscamente Zeto. “E penso di avere capito cosa intendeva, quando parlava dei grandi nemici…”
Mentre parlavano, quasi meccanicamente, scesero dalla nave e si diressero verso il centro della città, accompagnati da alcuni soldati.
“Che cosa ne pensi” chiese Arkantos al compagno.
“Riguardo al presagio? Beh, io ci credo… in fondo, su molte cose aveva ragione… però, non abbiamo le prove materiali che Poseidone sia adirato…”
Ci fu una pausa. Zeto riprese: “Penso che tu debba parlarne con i teocrati”.
Arkantos rispose con voce quasi arrabbiata:“Già, come se fossero flessibili… continuano a pensare alla guerra e a Poseidone… mai un’attimo di pace…”
“Ma non eri tu quello che desiderava le vecchie battaglie?” replicò Zeto.
“Infatti. Ma in questo modo, ho paura di attirarci nemici addosso.” Si calmò.
Ormai erano giunti al gran palazzo dei teocrati. I teocrati rappresentavano quello che si può definire il “Gran Consiglio di Atlantide”, un’organizzazione che regnava sull’isola e su tutte le colonie, amministrandone la giustizia, la legislazione e l’economia. Il loro massimo compito, comunque, era quello di prevenire le ire del volubile Poseidone, che talvolta si infuriava con la sua stessa civiltà; per quel motivo Arkantos si trovava lì.
Arkantos entrò nel palazzo, mentre Zeto rimase fuori. “Buona fortuna”, gli urlo, da dietro.
“Me ne servirà molta…” disse Arkantos in tono ironico.
Zeto si voltò, ma tornò indietro correndo per raggiungere Arkantos.
“Cosa c’è ora?” disse Arkantos.
“Beh, ecco… sapete, le voci che girano sulle navi sono spesso confuse, e… io non ci credevo, ma ora che so che Atena…”
Arkantos lo fissò enigmatico, chiedendosi dove volesse arrivare.
“Beh… ecco…” Zeto si fece coraggio. “E’… è vero che, da quando avete perso vostra moglie, voi siete innamorato di Atena?”
Arkantos si girò, e riprese a camminare verso la sala dove era atteso, senza degnare di una risposta Zeto.
LittleTeo
00giovedì 5 ottobre 2006 22:33
Capitolo 3°: Presagi


Arkantos camminava nel grande corridoio di marmi del palazzo, camminando spedito per il nervosismo e per la fretta che aveva di comunicare la notizia. Il palazzo era quasi vuoto, si vedevano solo ogni tanto degli scrivani dotate di pesanti torchi, con i quali stampavano i fogli che venivano poi affissi per le vie di Atlantide, che recavano annunci di grande o piccola importanza. La cosa stupì Arkantos, dato che gli scribi lavoravano la sera tardi e la notte, in modo da avere copie stampate pronte per il giorno successivo, mentre, in quel momento, era l’ora nona* (*le tre del pomeriggio). L’unico motivo possibile per il quale stessero scrivendo era qualche notizia di un importanza tale da non poter essere tenuta in serbo sino alla mattina successiva. Arkantos iniziò a preoccuparsi ancora di più, perché forse i teocrati erano al corrente del presagio che lui e Zeto avevano avuto.
Arkantos attraversò velocemente l’enorme architrave di marmo rosa incastonato di oro e di lapislazzuli, che conduceva alla porta della sala del consiglio. Davanti alla porta vi era una sentinella, che al suo passaggio sbatte i tacchi e fece il saluto militare, invitando Arkantos ad entrare, sussurrandogli che il consiglio era già iniziato.
Arkantos spinse gli enormi portoni di ferro che chiudevano la sala ed entrò.
La sala del consiglio di Atlantide era enorme: a forma di arena, era come un’enorme parlamento, dal quale più di 500 senatori, 251 rappresentanti Atlantide, 217 rappresentanti le colonie e una cinquantina tra capi dell’esercito, della politica, dell’economia, dei rapporti con l’estero.
Tra queste ultime 60 persone era compreso Arkantos, il quale, però, non si presentava mai, ritenendo che un’ammiraglio avesse di meglio da fare, tuttavia, spesso veniva sostituito da Castore, suo figlio, di appena quindici anni, il quale si presentava non tanto per votare, quanto per dare una “effettiva presenza”.
A capo dei 500 senatori, vi erano i 7 teocrati, le personalità più importanti, che erano a capo delle varie fazioni dei senatori. Quel giorno il parlamento era vuoto, salvo, per l'appunto, 4 dei sette teocrati che, non appena Arkantos entrò, iniziarono a guardaro, invitandolo ad accomodarsi.
I quattro teocrati quel giorno presenti erano Tylios, Peride, Gasparre e Krios, capo supremo di Atlantide, nonché padre di Arkantos. Anche Castore, in quel momento, era presente.
Arkantos e i teocrati si guardarono per alcuni secondi, dopodiché fù Arkantos il primo a parlare.
“Ebbene, vostri onore, mi avete convocato ed io sono accorso. Cosa desideravate da me?”
“Francamente, Arkantos”, rispose Peride “qui nessuno ti ha convocato: sei entrato di tua spontanea volontà…”
“Intendevate però convocarmi, non è vero?” fu la replica.
“In effetti si, e…” Peride venne interrotto bruscamente dalla voce dura e cupa di Krios.
“Va bene, bando ai salamecchi, Peride. Arkantos sa meglio di me il motivo per il quale è qui”.
La conversazione con suo padre era iniziata nel modo sbagliato: Arkantos e Krios erano celebri per le loro litigate, così gli altri teocrati si fecero da parte e si goderono lo spettacolo.
Arkantos stette muto.
“Ebbene, non vuoi parlare, eh?” lo rimbecco Krios “Perché non ci parli un po’ di qualche particolare del tuo viaggio… magari, non so… un sogno…”
Arkantos non fu sorpreso dalle sue parole. “Come lo sai?” chiese in tono cupo.
“Grazie al tuo figliolo, qui presente” girò momentaneamente la testa verso Castore, poi si rigirò a fissare Arkantos “ho… anzi, non eri tu quello che aveva sempre sostenuto che spesso padre e figlio hanno gli stessi sogni?” Castore abbassò la testa, senza parlare. “Cosa voleva dire, Atena?”
“Penso tu lo sappia meglio di me…” rispose Arkantos in tono sarcastico.
Krios fece finta di fare un sorriso. “Molto divertente”.
Continuò: ”penso che basti una sola parola per descrivere la situazione: Troia”.
Era proprio quello che Arkantos temeva.
“Ebbene sì, Troia. Il presagio di Atena non può che essere un’avvertimento: Poseidone è contrariato. Vuole che noi prendiamo parte alla guerra di Troia. Sono ormai nove anni che le truppe di re Agamennone cercano di entrare, senza riuscirci. Ormai saranno stemati; dobbiamo inviare rinforzi ad aiutarli.”
“Non sono d’accordo” rispose Arkantos.
“Come supponevo”, ribatte Krios con sarcasmo. “Insomma Arkantos, non puoi ignorare i presagi; Poseidone è evidentemente contrariato; l’assedio a Troia và interrotto al più presto. Dobbiamo agire.”
Arkantos si alzò in piedi. Disse:”Le truppe che inviamo di rinforzo giungeranno sulla battaglia quando sarà già finita a favore dei greci; ormai è palese che tra poco sfonderanno le porte di Troia ed entreranno a liberare Elena… le nostre navi non potranno far altri che mostrare il vessillo di Atlantide… i greci penseranno che siamo lì solo per prenderci un gloria immeritata… o che siamo giunti per aiutare i troiani! E questo non si addice ad un ammiraglio!”
“Aaaahh... sciocchezze!” Ribatte Krios “Avrai notato che non ci sono navi… è perché sono già pronte a Siviglia per partire alla guerra, aspettano solo un’ordine… inoltre Agamennone lamenta sempre la nostra scarsa attenzione alle colonie Greche… gli faremmo un’onta, se invissimo un’ufficiale inesperto…”
Arkantos sapeva dove voleva arrivare.
“No, Arkantos… devi andarci tu.”
Nello stesso istante, urla di panico si levarono dalla città…
LittleTeo
00venerdì 6 ottobre 2006 19:06
Ci sono numerosi errorini nella versione precedente... se possibile, leggete questa, migliore:

Capitolo 3°: Presagi

Arkantos camminava nel grande corridoio di marmi del palazzo, camminando spedito per il nervosismo e per la fretta che aveva di comunicare la notizia. Il palazzo era quasi vuoto, si vedevano solo ogni tanto degli scrivani dotate di pesanti torchi, con i quali stampavano i fogli che venivano poi affissi per le vie di Atlantide, che recavano annunci di grande o piccola importanza. La cosa stupì Arkantos, dato che gli scribi lavoravano la sera tardi e la notte, in modo da avere copie stampate pronte per il giorno successivo, mentre, in quel momento, era l’ora nona* (*le tre del pomeriggio). L’unico motivo possibile per il quale stessero scrivendo era qualche notizia di un importanza tale da non poter essere tenuta in serbo sino alla mattina successiva. Arkantos iniziò a preoccuparsi ancora di più, perché forse i teocrati erano al corrente del presagio che lui e Zeto avevano avuto.
Attraversò velocemente l’enorme architrave di marmo rosa incastonato di oro e di lapislazzuli che conduceva alla porta della sala del consiglio. Davanti alla porta vi era una sentinella, che al suo passaggio sbatte i tacchi e fece il saluto militare, invitando Arkantos ad entrare, sussurrandogli che il consiglio era già iniziato.
Arkantos spinse gli enormi portoni di ferro che chiudevano la sala ed entrò.
La sala del consiglio di Atlantide era enorme: a forma di arena, era come un’enorme parlamento, dal quale più di 500 senatori, 251 rappresentanti Atlantide, 217 rappresentanti le colonie e una cinquantina tra capi dell’esercito, della politica, dell’economia, dei rapporti con l’estero.
Tra queste ultime 60 persone era compreso Arkantos, il quale, però, non si presentava mai, ritenendo che un’ammiraglio avesse di meglio da fare, tuttavia, spesso veniva sostituito da Castore, suo figlio, di appena quindici anni, il quale si presentava non tanto per votare, quanto per dare una “effettiva presenza”.
A capo dei 500 senatori, vi erano i 7 teocrati, le personalità più importanti, che erano a capo delle varie fazioni dei senatori. Quel giorno il parlamento era vuoto, salvo, per l'appunto, 4 dei sette teocrati che, non appena Arkantos entrò, iniziarono a guardarlo, invitandolo ad accomodarsi.
I quattro teocrati quel giorno presenti erano Tylios, Peride, Gasparre e Krios, capo supremo di Atlantide, nonché padre di Arkantos. Anche Castore, in quel momento, era presente.
Arkantos e i teocrati si guardarono per alcuni secondi, dopodiché fu Arkantos il primo a parlare.
“Ebbene, vostri onore, mi avete convocato ed io sono accorso. Cosa desideravate da me?”
“Francamente, Arkantos”, rispose Peride “qui nessuno ti ha convocato: sei entrato di tua spontanea volontà…”
“Intendevate però convocarmi, non è vero?” fu la replica.
“In effetti si, e…” Peride venne interrotto bruscamente dalla voce dura e cupa di Krios.
“Va bene, bando ai salamecchi, Peride. Arkantos sa meglio di me il motivo per il quale è qui”.
La conversazione con suo padre era iniziata nel modo sbagliato: Arkantos e Krios erano celebri per le loro litigate, così gli altri teocrati si fecero da parte e si goderono lo spettacolo. Arkantos rimase in silenzio.
“Ebbene, non vuoi parlare, eh?” lo rimbecco Krios “Perché non ci parli un po’ di qualche particolare del tuo viaggio… magari, non so… una notte in particolare, sotto le stelle… un sogno…”
Arkantos non fu sorpreso dalle sue parole. “Come lo sai?” chiese in tono cupo.
“Grazie al tuo figliolo, qui presente” girò momentaneamente la testa verso Castore, poi si rigirò a fissare Arkantos “ho… anzi, non eri tu quello che aveva sempre sostenuto che spesso padre e figlio hanno gli stessi sogni?” Castore abbassò la testa, senza parlare. “Cosa voleva dire, Atena?”
“Penso tu lo sappia meglio di me…” rispose Arkantos in tono sarcastico.
Krios fece finta di fare un sorriso. “Molto divertente”.
Continuò a parlare, rivolgendosi ai teocrati; ”penso che basti una sola parola per descrivere la situazione: Troia”.
Era proprio quello che Arkantos temeva.
“Ebbene sì, Troia. Il presagio di Atena non può che essere un’avvertimento: Poseidone è contrariato. Vuole che noi prendiamo parte alla guerra di Troia. Sono ormai nove anni che le truppe di re Agamennone cercano di entrare, senza riuscirci. Ormai saranno stemati; dobbiamo inviare rinforzi ad aiutarli.”
“Non sono d’accordo” rispose Arkantos.
“Come supponevo”, ribatte Krios con sarcasmo. “Insomma Arkantos, non puoi ignorare i presagi; Poseidone è evidentemente contrariato; l’assedio a Troia và interrotto al più presto. Dobbiamo agire. Abbiamo atteso troppo a lungo, e dobbiamo rimediare.”
Arkantos si alzò in piedi. Disse: ”Le truppe che inviamo di rinforzo giungeranno sulla battaglia quando sarà già finita… e a favore dei greci! Ormai è palese che tra poco sfonderanno le porte di Troia ed entreranno a liberare Elena… le nostre navi non potranno far altri che mostrare il vessillo di Atlantide… i greci penseranno che siamo lì solo per prenderci un gloria immeritata… o che siamo giunti in ritardo per mandare rinforzi a Troia! E questo non si addice ad un ammiraglio!”
“Aaaahh... sciocchezze!” Ribatte Krios “Avrai notato che non ci sono navi… è perché sono già pronte a Siviglia per partire alla guerra, aspettano solo un’ordine… non ci metteranno molto ad arrivare… inoltre Agamennone lamenta sempre la nostra scarsa attenzione alle colonie Greche… gli faremmo un’onta, se inviassimo un’ufficiale inesperto…”
Arkantos sapeva dove voleva arrivare.
“No, Arkantos… devi andarci tu.”
Tutti i teocrati si alzarono in piedi, in segno di approvazione. Castore stette seduto.
Nello stesso istante, urla di panico si levarono dalla città.

LittleTeo
00mercoledì 18 ottobre 2006 20:20
Capitolo 4°: Pirati!

L’urlo di panico raggelò le ossa di tutti i presenti. Proveniva dalla città, ed era un’urlo di terrore acutissimo. I Teocrati iniziarono ad immaginare (e a sperare) l’urlo fosse stato prodotto dalla loro immaginazione, ma persero ogni dubbio quando un forte schianto, seguito da una luce intensissima, sbriciolò il vetro col mosaico di Poseidone dell’aula del parlamento. Ora, dall’ampio varco formatosi, si poteva vedere benissimo la città e il porto.
Nel porto stavano arrivando delle navi trireme da guerra, con bandiera pirata; alcune erano armate con catapulte e baliste fissate sulle navi, altre, invece, erano da trasporto, probabilmente piene di soldati. Altre navi erano attrezzate invece da carico, come se i pirati fossero sicuri di riuscire a saccheggiare qualcosa. Perlomeno così pensavano Arkantos e Krios.
Le esplosioni erano state provocate da alcune meteoriti lanciate dagli dei che, evidentemente, aiutavano i pirati; molto probabilmente, erano déi Fenici, una civiltà mediterranea in declino, ma bene attrezzata per la guerra navale, che era sempre stata rivale di Atlantide, e talvolta, navi fenice tentavano di espugnare l’isola, senza mai riuscirci. Fino ad allora.
Le meteore avevano colpito il porto, distruggendolo quasi completamente, e alcuni edifici adiacenti, sede di bottegai, marinai e scaricatori di porto. I morti dovevano essere a centinaia.

I teocrati erano stupefatti e increduli di fronte al macabro spettacolo. Krios sembrava impaurito. Arkantos, invece, era infuriato. Prima di andare verso il porto, si avvicinò a Castore, suo figlio, per parlargli.
“Figlio mio” disse. Castore spostò il suo sguardo allibito e pauroso dalla finestra alla faccia del padre.
“Ora devo andare… Atlantide mi chiama.”
Castore iniziò a piangere. Disse:
“P-perché f-fai questo? C-c-cosa abbiamo fatto, di male… perché devi a-andare a combattere contro i p-pirati…”
“Ecco… io…” fece una pausa. Sbuffò “No, non ti racconterò la solita storiella, non “vado per la gloria di Atlantide”.” Arkantos abbassò la testa, sbuffando, per poi rialzarla. “Fosse per me, me ne andrei da qui… non mi sento fatto per questo ruolo. Ma, Castore, la fuori c’è molta gente, tantissima gente. Che ora è in pericolo. Ed ha bisogno di me.”
Castore non fu minimamente sollevato.
“P-perché d-devi p-partire p-per T-Troia, a-allora? Perché? Perché noi? Perchè tu?”
“Non lo so, figlio mio.” Fu la dura risposta di Arkantos. “Non lo so. Ma so che devo farlo. Più adesso che mai.”
Arkantos si alzò in piedi, in tutta la sua statura. I piedi scalzi camminavano sul pavimento pieno di cocci di vetro, la lancia nella sua mano veniva stretta con tale furore che si sarebbe spezzata, se non fosse stato che era poggiata a terra. Iniziò ad incamminarsi verso l’uscita, diretto verso la città. Si voltò un’ultima volta.
“Padre! Castore!” Sia Krios che Castore si voltarono, assieme a tutti i Teocrati.
Tornerò, prima della fine. Non ci diremo addio così. Cercherò di radunare le poche forze, di sconfiggere i pirati e partirò verso Siviglia, diretto a Troia. Ma tornerò. E’ una promessa.” Dopodiché, si voltò, e corse verso la città.
Krios si girò, e mentre Arkantos correva verso, gli urlò:
“Buona fortuna, figliolo mio. Ne avrai bisogno.”
LittleTeo
00venerdì 24 novembre 2006 22:20
L’esercito di Atlantide:


Prima di proseguire con la storia, è doveroso raccontare la formazione dell’esercito atlantideo dei tempi.
Atlantide era, di fatto, la prima potenza mondiale per la marina e la seconda per la fanteria, dopo la Grecia. La forza dell’impatto delle squadriglie di navi, piccole, non molto robuste, ma bene armate, veloci e agili, era impressionante. Le navi più comuni erano i trireme semplici, a doppia propulsione velica e remante, le cui uniche armi erano lo sperone di prua, con il quale abbordavano e speronavano le navi avversarie, erano in grado di trasportare anche mille uomini per cinquecento miglia, senza sosta.
Altre navi erano i biremi d’assedio, armate di un’enorme catapulta, dalla quale venivano sparati proiettili pesanti fino a 500 kg, in grado di affondare navi ed abbattere edifici in pochi colpi. Nonostante sembrassero molto potenti, erano tuttavia deboli in molti punti: non avevano, intanto, la possibilità di colpire navi che si avvicinavano tanto da uscire dal tiro della catapulta, o, semplicemente, gli tendessero un’imboscata alle spalle; inoltre, nonostante fossero relativamente piccole come altre navi (anche se spesso erano grandi sino al doppio di normali trireme), erano lente e poco agili: in spazi stretti erano addirittura impossibili da governare. Infine, non avevano l’opportunità di muoversi a vela, dato che l’enorme catapulta occupava praticamente tutto lo spazio, da prua a poppa, e sapete meglio di me cosa significa spingere una nave con quella stazza solo a remi.
Tuttavia, questa nave, nella formazione navale, era spesso accompagnata da trireme leggere, che compensavano, in parte, i suoi difetti; molte volte, la sola presenza di qualche decina di biremi d’assedio faceva arrendere la flotta avversaria, anche se fosse stata 3 volte superiore di numero.
Le navi più potenti in assoluto restavano, comunque, le quadriremi: esse sembravano non avere difetti, ed in effetti, non ne avevano: piccole, agili, veloci, capaci di muoversi solo con la forza del vento quando era favorevole, armate con una decina di grosse balestre che, messe sui lati, sparavano proiettili di mezzo metro di lunghezza che trafiggevano lo scafo delle navi nemiche; era la nave “perfetta” del Mediterraneo e dell’Atlantico, e per anni restò il simbolo di Atlantide. La Petcheskos, la nave di Arkantos, è una di queste.

La fanteria regolare Atlantidea era formata da 100 divisioni, quali nel massimo splendore contavano fino a 2500 uomini l’una. Non si può dire da quanti uomini fosse composta una divisione, dato che era di buon auspicio mantenerne sempre cento, e distribuire gli uomini omogeneamente.
La maggior forza terrestre Atlantidea era la fanteria, composta da opliti e murmilli; i primi erano una fanteria pesante, armata di lance e enormi scudi di bronzo, importati dalle miniere dell’Acaia. Questi fanti erano usati moltissimo anche in Grecia.
I secondi erano la fanteria più “caratteristica” atlantidea: armati di scudi più piccoli e robusti, in ferro, erano dotati di piccole spade o gladi, oltre che alle armi più tecnologiche di cui erano dotati gli atlantidei, come i lanciafiamme ad alcol, gli scudi di magnetite (che funzionavano come una potente calamita, che attariva le armi in ferro, disarmando l’avversario) e bombe incendiarie, costruite con la “polvere magica” che veniva dall’oriente, quella che oggi chiamiamo polvere da sparo.
Ovviamente, queste armi erano un’esclusiva atlantidea, ed essi erano molto gelosi nel regalarle e nel venderle alle altre civiltà; le adoperarono anche poco in battaglia, per timore che i nemici potessero comprenderne i meccanismi.

L’esercito atlantideo era composto da creature umane, come già elencato, ma anche da semi-umani, ibridi ed esseri mitologici.
Nonostante la protezione di Poseidone, dio del mare e dei cavalli, gli atlantidei non avevano una buona cavalleria, eccezion fatta per i centauri, esseri mezzi uomini e mezzi cavallo, che erano stati importati dalla Grecia e dall’Illiria in tempi antichi, ed in queste epoche vagavano per le foreste dell’isola; venivano impiegati nelle guerre, in cambio di una “garanzia” di vita solitaria, oltre che uno spazio dell’isola nel quale nessun umano potesse entrare, senza il loro permesso. Nelle guerre erano un’arma terribile: più veloci e possenti di normali cavalcature, dotati di archi e lance, non sopportavano, tuttavia, di essere trattati come “bestie da soma”, cioè non accettavano di essere cavalcati da persone che non fossero importanti, come re, ufficiali o eroi di battaglia.
Questi centauri, tuttavia, avevano più di un difetto: erano enormemente intelligenti, pari con l’uomo, ma si ritenevano migliori di essi, per ragioni sconosciute. Nonostante questa loro grande intelligenza, erano rozzi e vili; spesso arrivavano di sorpresa nelle feste all’aperto, molto comuni nelle tradizioni atlantidee, soprattutto i matrimoni, e dapprima se la spassavano con i loro “compari umani” (che se non li avessero accettati li avrebbero presi a zoccolate), dopodiché banchettavano e bevevano, ma nonostante la loro enorme mole (potevano arrivare a pesare poco meno di una tonnellata) reggevano poco l’alcol, ubriacandosi molto facilmente, ed arrivando a minacciare i partecipanti alle feste e rapire delle persone, soprattutto giovani vergini, quali molto spesso erano le stesse spose durante la festa nuziale.
Altri esseri semi-umani erano le Caladrie, esseri dalla forma umana, ma dotati di ali pennate che avevano sulla schiena, lunghe da quattro a sei metri; esse vivevano soprattutto sulle montagne al centro dell’isola, ed avevano rapporti molto più pacifici e frequenti con gli umani rispetto ai centauri.
Le caladrie erano libere di scegliere se partecipare nelle guerre di atlantide o meno, ma molto spesso accettavano, dato che le perdite nelle loro file erano molto ridotte, poiché solo i più bravi arcieri erano in gradi di colpirle mentre volavano. Venivano ricambiate dell’intervento in guerra con armi, che servivano loro moltissimo, essendo perennemente in lotta con gli Uccelli di Stinifalia, enormi uccelli simili ad aquile, ma molto più grandi, aggressivi e affamati; molto probabilmente, se questi uccelli non esistessero, le Caladrie diventerebbero, in poco meno di due secoli, più degli atlantidei umani, dato che si riproducono molto velocemente facendo uova. Purtroppo, però, gli Uccelli di Stinifalia continuano ad ucciderne, anche per mangiare, quando non trovavano animali alternativi. I massacri erano in scala gigantesca: alcune volte questi uccelli arrivarono ad uccidere talmente tante Caladrie che esse dovettero ritirarsi nelle città, dove erano difese dall’esercito atlantideo, in attesa di ritornare numerose e poter tornare ad abitare sulle montagne.
Altri esseri erano i Behemoth, animali enormi simili ad ippopotami zannuti, che erano usati come arma d’assedio, i Fauni, semi-umani bipedi simili a centauri che, tuttavia, avevano solo due zampe, i Rock, enormi aquile importate dall’Egitto grandi fino a 30-40 metri, in grado di trasportare pesi di diverse tonnellate.

Altre creature, che tuttavia non facevano parte dell’esercito, erano:
_i ciclopi, enormi esseri dalla forma simile a quella umana, con un solo occhio, alti circa 4-5 metri, che, al contrario degli orchi, erano molto intelligenti e astuti, anche se volti al male, si cibavano di animali da allevamento come mucche e capre, ma mangiavano anche esseri umani e semi-umani, specialmente i centauri, popolo con la quale erano spesso in guerra, assieme agli orchi.
_i ragni giganti, bestie molto più grandi del normale, grossi tra mezzo metro e cinque metri di grandezza.
_i minotauri, ibridi dal corpo umano e dalla testa di toro, discendenti del Minotauro di Minosse, sull’isola di creta, che avevano due corna con le quali riuscivano a sfondare anche una parete di marmo.
_gli ippogrifi e gli ippocampi, animali nati dalla mente del dio Poseidone; i primi erano dei cavalli bianchi alati, bramati come cavalcatura dagli eroi, i secondi dei cavalli marini pinnati, che, a volte, venivano utilizzati per trainare barche fuori da un porto.
_le Idree, enormi bestie a forma di coleottero, ma non volanti e di dimensioni notevolmente maggiori (anche 5 metri di altezza), erbivore e mansuete; potevano avere una o più teste, a seconda dell’età: si dice che una volta ne esistesse una con addirittura 80 teste.
_le Chimere e le Manticore, le prime, leoni con una testa da demone, una da capra e la coda da un serpente, erano in grado di sputare fuoco, ed erano un flagello per tutti i villaggi che incontravano nelle loro peregrinazioni, cibandosi di bestiame e di carne umana; le seconde erano belve simili a pantere o leoni dalla faccia da donna, erano in grado di sparare aculei affilati come rasoi dalla coda, uccidendo sul colpo anche un’elefante; anche esse si cibavano di bestiame e di carne umana.
_I giganti Heka, enormi mostri alti fino a tre metri, con sei braccia ed una forza in grado di sollevare dieci tonnellate senza nessuno sforzo, non erano però ostili all’uomo: a volte aiutavano, in cambio di cibo, le persone che dovevano svolgere lavori pesanti; erano anche utili, poiché si cibavano anche di carne di esseri dannosi, come i ciclopi, le carogne e le manticore.

Alcune unità mitiche affiancavano, invece, la marina: le meduse, che erano enormi esseri dal torso e dalla testa umana e dalle gambe composte da una coda di serpente larga un metro e lunga un decimo di miglio (200 metri), che vagavano per gli oceani, aiutando, talvolta, le trireme Atlntidee e greche nei contrasti alle creature marine dei popoli del nord Europa, come i Kraken; esistevano, all’epoca, solo sette esemplari di questa specie, ma erano immuni alla vecchiaia, immortali.
Le Nereidi (che bisognerebbe più propriamente chiamare “figlie di Nereidi”) erano esseri uguali in tutto e per tutto a giovani ragazze umane, con a sola eccezione che avevano branchie ed erano in grado di vivere sia sopra che sotto l’acqua; in genere si spostavano nuotando o cavalcando animali marini con i quali vivevano in simbiosi, come delfini, balene o, in tempo di guerra, squali bianchi.
Dato che in questa specie erano presenti solo esemplari femmina, per riprodursi dovevano accoppiarsi con maschi umani.
I Carcinos erano enormi granchi, lunghi anche 15 metri, che con un colpo di chela potevano squarciare a metà una nave poco robusta; erano, comunque, poco utilizzati, dato che erano molto rari.

Queste sono le creature che popolavano Atlantide all’epoca. Oltre alle creature già elencate, ne esistevano tantissime altre, ma non mi dilungo ad elencarle.
Altre creature mitologiche esistevano in altri luoghi, ma ne parlerò più tardi, a tempo debito.

LittleTeo
00venerdì 24 novembre 2006 22:22
Capitolo 5°: La flotta celeste


Arkantos era seduto su una banchina del molo semidistrutta, accanto alla sua nave, la Petcheskos, anch’essa parzialmente danneggiata dalla battaglia.
Attorno a lui, c’era un intero quartiere devastato; alcuni alti edifici erano crollati, sotto il peso delle baliste installate sulle navi pirata e delle meteore, e molti edifici ospitanti negozi e residenze del popolo atlantideo erano distrutti. Il mercato generale, un’enorme struttura per metà su moli e per metà su palafitte, dove le navi mercantili attraccavano e vendevano le merci ai commercianti e agli abitanti, era seriamente danneggiato, e ci sarebbero voluti mesi di intenso lavoro e migliaia di libbre d’oro per ricostruirlo.
Il porto era praticamente inagibile: più di quindici navi pirata erano relitti affioranti sulla superficie dell’acqua, semi-squarciate dai proiettili delle catapulte e dai lanciafiamme; molti moli erano distrutti, e, a volte, interi cantieri navali, non retti più dai piloni, erano sprofondati in acqua, distruggendo le navi in riparazione e in costruzione all’interno. All’entrata della baia, quattro navi pirata fuggivano, sfruttando l’esiguo vento da terra che si era formato.
Sulle banchine, molti uomini marchiati da pirati erano ammanettati e tenuti sosto tiro da arcieri ben addestrati; essi aspettavano l’arrivo di alcuni carri che caricavano i prigionieri e li portavano nelle prigioni del palazzo, ed alcuni nelle prefetture di opliti, dove venivano interrogati sulla loro provenienza e sui loro scopi. Le vie erano piene di cadaveri, sia di murmilli atlantidei che di pirati che di civili, e alcune persone raccoglievano i cadaveri e li bruciavano in cambio di qualche moneta d’oro. “Utili, ma sfrontati”, pensò Arkantos.
La battaglia era stata tremenda: l’attacco a sorpresa dei pirati aveva provocato lo scompiglio tra i civili e i militari; molti erano stati uccisi ancor prima che avessero capito come.
Le forze militari di Atlantide, in quel momento, erano esigue: era presente solo metà della sesta divisione di fanteria atlantidea e la cinquantunesima divisione di arcieri africani, molto ben addestrati, ma palesemente inferiori al nemico.
La fortuna di Atlantide fu quella di avere il controllo degli edifici: le meteoriti che avevano bombardato la città erano esigue, e molti edifici erano rimasti intatti: in questo modo, le truppe erano salite sui tetti, uccidendo chiunque si avvicinasse con le frecce e i lanciafiamme, senza essere colpiti.
Inoltre, forse la battaglia starebbe ancora continuando, se i pirati fenici non avessero fatto molti errori tattici; il primo fu fare sbarcare le truppe da sbarco dalle navi prima di avere fatto piazza pulita dei soldati; in questo modo, i primi soldati si ammassarono sugli stretti moli, e furono facile preda degli arcieri vicino alla riva e sulla prima fila di case.
Il secondo, e maggiore degli errori, fu essere troppo spavaldi e sicuri della vittoria: “si ricorderanno molto bene i proiettili incendiari delle nostre catapulte, e i nostri lanciafiamme” pensò Arkantos.
Restava il fatto, comunque, che alcune navi erano fuggite. “Meglio” disse Zeto “porteranno a casa loro la notizia della loro bellissima battaglia.”
Arkantos ridette per un secondo, ma tornò serio. Quello era stato un piccolo attacco. Una guerra lo attendeva, a Ilio, anche chiamata Troia. Una guerra che non si profilava avere fine.

I preparativi sulla Petcheskos infervevano; veniva caricata di armi, cibo, acqua e tutti i soldati di cui potesse sopportarne il peso. Si riuscirono anche a rimediare un altro paio di trireme, per trasportare anche qualche altra truppa per la guerra, che si doveva aggiungere all’enorme esercito alla fonda a Siviglia.
Solo allora, circa un’ora dopo l’attacco, che Arkantos vide qualcosa che non andava.
“Zeto” urlò, cercandolo. Il maresciallo usci dalla coperta della nave. “Cosa c’è?”
“Guarda… la statua di Poseidone…”
“La vedo. E’ un po’ danneggiata, andrebbe riparata.”
“No, non alludo a quello” rispose quasi infastidito Arkantos “Non ti sembra manchi qualcosa?”.
Zeto scrutò bene la statua, distante più di mezzo miglio, ma essendo alta quasi 30 metri, la si poteva scorgere da ogni punto di Atlantide. Essa era l’orgoglio di Atlandide, decorata in oro e con un’enorme tridente di piombo in mano, simbolo della navigazione e dello stesso dio.
“Oh, santo Olimpo! La… la…”
“Il tridente è scomparso… allora non era un’allucinazione!”
Zeto era esterrefatto: quel tridente era preziosissimo per Atlantide: ne era praticamente il simbolo.
“Co-come può essere?”
“Rubato.”, disse una voce dietro di loro. Entrambi si girarono. Dietro di loro c’era Krios, in vesti da popolano, ma lo riconobbero subito. Zeto si rizzò sull’attenti e fece il salto militare, Arkantos, invece, si avvicinò.
“Rubato?” esclamò.
“Già. Rubato. Durante la battaglia. Sono riuscito a scorgerli da lontano, mentre lo staccavano e lo caricavano su una nave… una delle navi che è fuggita. E’ stato un Minotauro a farlo.”
“Un Minotauro?” rispose dubbioso Arkantos. “Che sia proprio lui… Kamos?”
“E’ lui. Non è la prima volta che cerca di invadere Atlantide, senza successo… te lo ricordi, vero?”
“E come potrei dimenticarlo? Quel mezzo uomo mezzo bue ha ucciso mia moglie!”
“…mezzo toro…” Krios abbassò la testa.
Arkantos si girò verso il mare, gettò la lancia a terra, si mise in ginocchio ed urlò, per la rabbia.
Si rialzò in piedi, girandosi verso Krios.
“Riporterò indietro quel tridente! E’ poco, ma sicuro!”
“Come farai, figlio mio!” disse Krios, con tono paterno “Non puoi farlo… Krios si sarà organizzato… saranno arrivati rinforzi, per loro! Vorresti sfidarlo con tre trireme mezze scassate?!? Non farti prendere dalla follia! Già a Troia si narra abbiano dei problemi per questo!”
“Ti ricordo che la marina non è la sola forza di Atlantide…” Arkantos guardò la montagna di Atlantide dietro di lui, attorno alla quale molti uccelli, Caladrie e Stinifalie volteggiavano.
Krios capì cosa Arkantos aveva in mente. “Tu sei pazzo!” Commentò.
Sorrise. “Lo so.”
E corse prima verso le scuderie, poi verso l’alta montagna. Il piano che aveva era geniale… doveva funzionare.

LittleTeo
00martedì 26 dicembre 2006 14:39
Capitolo 6°: Kamos

Due uomini nella notte erano seduti attorno ad un fuoco, nel centro di un grande accampamento militare che si erigeva su un’isola sperduta, vicino alle coste della Iberia sudorientale. Attorno a loro, molti soldati si andavano avanti e indietro portandosi dietro armi, scudi ed armature; qualcuno di loro trasportava anche enormi ceste, piene di viveri ed otri colmi d’acqua. Sembrava esserci molto movimento, nonostante fosse notte.
“Missione compiuta, amico mio.” disse il primo uomo, più alto e autoritario rispetto all’altro. Sulla tunica che portava erano appese stellette di bronzo, e sulla stoffa era ricamato il grifone rosso, il simbolo degli ufficiali fenici: era un soldato importante, un ufficiale, a differenza dell’altro, scarno, magro e piccolino, armato di una lancia che stringeva ancora tra le braccia e di uno scudo, appoggiato sulla schiena, che era un semplice milite.
L’ufficiale, dopo una breve pausa, riprese a parlare.
“Allora… hai avuto paura?”
“Si.” Rispose sinceramente il soldato, con voce timida.
“E’ normale… alle prime armi è sempre così… ma ti farai esperienza, vedrai! Perlomeno, potrai raccontare ai tuoi discendenti che hai attaccato e distrutto il porto di Atlantide!”
“Francamente” rispose il soldato “avrei preferito starmene a casa, con i miei discendenti… piuttosto che questo…” fece un sospiro, e tornò a parlare con più tono di prima;
“Ma come fai a chiamarla vittoria! Abbiamo perso almeno metà degli uomini, in quel covo di Atlantidei!”
Da dietro il soldato rombò una voce possente e minacciosa, che pareva una via di mezzo tra un ruggito e un grugnito: “E questo non ti deve importare…”
Sia il soldato che l’ufficiale alzarono la testa: davanti a loro si stagliava un Minotauro, un essere dal corpo di un uomo e dalla testa di un toro. Era alto quasi due metri e mezzo, vestito di una sfavillante corazza di bronzo nero; aveva pelo marrone e ispido sulla testa, che lo rendeva ancora più terrificante, e gli mancava una mano, che era sostituita da una falce tanto affilata da poterci tagliare un capello in quattro. I due uomini, alla sua vista, scattarono sull’attenti.
“Emh… b-buonasera, K-kamos…”
La voce del Minotauro tuonò ancora: “Generale Kamos, quante volte te lo devo ripetere, Dolestron, Generale Kamos!”
Il soldato e l’ufficiale si impietrirono per la paura; “Sissignore… g-generale Kamos… m-mi p-perdoni…”
Kamos si girò, iroso, e si diresse verso la tenda più vicina; fece uno squarcio con la sua mano-falce nella tela, ed urlò dentro, ai soldati che dormivano. “Forza! Alzarsi, fannulloni!”
Tornò dall’ufficiale vicino al fuoco, che era rimasto sull’attenti, spaventato e, allo stesso tempo, incuriosito.
“Sottotenente Dolestron, prepari la sua unità. Si parte per l’altro capo dell’isola.”
Il sottotenente, deglutendo, riuscì ad azzardare un commento: “Come, prego?”
“Le ripeto: svegli i suoi uomini. Ci sono atlantidei, dall’altra parte dell’isola: gli esploratori ne hanno avvistato i fuochi del campo. Vanno annientati.”
L’ufficiale e il soldato furono sorpresi. Il porto di Atlantide era distrutto… come avevano fatto a radunare sufficienti navi da portargli un’esercito alle calcagna? Mentre riflettevano corsero velocemente nella loro tenda a svegliare i soldati, prima che passasse Kamos con la sua “dolce” sveglia: di certo non ne avrebbe aumentato il morale…

Trenta minuti dopo, un esercito di uomini, minotauri, uomini scorpione, e ciclopi usciva dal cancello dell’accampamento, e marciava nella direzione del campo Atlantideo; La marcia durò poco più di dieci minuti.
L’esercito si appostò su una collina, dalla quale si poteva vedere il campo: era composto da una mezza dozzina di tende attorno ad un fuoco, ed alcuni soldati opliti e murmilli erano sdraiati appena fuori dalle tende, dormienti. Non si vedevano le navi con la quale erano arrivati, ma il campo era a portata d’arco.
I pirati, dapprima impauriti, pensando di scontrarsi con l’intero esercito atlantideo, ripresero coraggio, vedendo che le tende erano sufficienti ad ospitare al massimo trecento uomini o poco più.
Senza nessun ordine, tutti i soldati incoccarono le frecce sugli archi, pronti a fare fuoco. Solo Kamos ebbe un presentimento di una trappola. Si mise davanti alle truppe, ed urlò:
“Il tridente rubato dalla statua di atlantide… rammentate?”
Tra i soldati serpeggiò un mormorio indistinto, seguito da un si generale.
“Ebbene… vi sarete chiesti perché abbiamo eseguito una missione così suicida… di attaccare Atlantide, soli, in pieno giorno…”
Il mormorio riprese, più forte di prima.
“Silenzio!” Urlò Kamos. La folla si zittì.
“Il nostro obbiettivo non era Atlantide, ma quel tridente: se qualcosa dovesse andare male, difendetelo a costo della vita! Quel tridente vale quanto tutta la fenicia, la Grecia e Atlantide messi assieme! Se quel tridente verrà perso, vi farò impiccare, uno per uno!”
La folla non diede ascolto tanto alle minacce, che Kamos diceva ogni secondo, ma al valore che aveva attribuito al tridente: sapevano che era importantissimo per Atlantide, dato che ne era il simbolo… ma addirittura così prezioso? Che fosse era oro? Argento e platino? Adamantio? Aveva qualche valore magico?
Non fecero in tempo a rifletterci su, che Kamos diede l’ordine di sparare: dopo un’attimo di titubanza, migliaia di frecce, di cui molte infuocate, volarono verso il campo, che in breve tempo fu distrutto e incendiato; i figuri che erano sdraiati vicino al fuoco erano traforati da almeno una decina di frecce ciascuno, e tutta l’area della accampamento era una distesa sterminata di penna di freccia.
I soldati, dopo aver sparato un paio di volte, corsero giù per la collina per razziare l’accampamento in fiamme. Kamos stette fermo sulla collina. “Possibile che fosse stato così facile?” pensava ancora.
Le urla delle truppe, che erano ormai arrivate all’accampamento, si fermarono di botto. Arrivando sui cadaveri dei soldati che dormivano fuori dalle tende, i pirati si accorsero che non erano cadaveri umani. E non erano neppure cadaveri.
“M-m-manichini? E’ UNA TRAPPOLA!” urlò qualcuno a squarciagola.
Dal mare partirono due frecce infuocate, che illuminarono per un secondo l’area, rendendo visibili quattro navi atlantidee. Si senti un fruscio di vento, che si fece sempre più intenso. In breve, migliaia di frecce colpirono i soldati dal cielo, che non poterono vedere il nemico che li assaliva. Alcuni si rifugiarono sotto i tavoli dell’accampamento, altri riuscirono a fuggire nelle boscaglia, cercando di rientrare al campo base. Ma solo pochi riuscirono a fuggire: era una vera e propia pioggia: ogni centimetro del campo fu tappezzato da dardi, e anche molti di coloro che fuggivano venivano colpiti da frecce scagliate da un nemico che apparentemente sembrava essere nascosto nell’oscurità del cielo. Kamos, ancora sulla collina, fece in tempo a correre anch’esso verso la boscaglia, accompagnato da una cinquantina di soldati.

Zeto, assistendo alla scena dalla Petcheskos, una delle quattro navi Atlantidee al largo dell’isola, accennò un sorriso di stupore e di compiacimento. Migliaia di pirati erano morti in un colpo solo, e non avevano ne la cognizione di chi li attaccasse, ne da dove. L’idea che Arkantos aveva avuto ad Atlantide, prime di salpare, aveva avuto un’ effetto migliore del previsto.
Nell’accampamento e sulla spiaggia non era rimasto più nessuno: tutti quelli che non erano riusciti a fuggire erano morti.
Le quattro navi atlantidee si avvicinarono alla riva e sbarcarono i pochi soldati che trasportavano, tra i quali Zeto ed Arkantos.
“Un bel lavoro, non è vero?” disse Arkantos, scendendo dalla nave.
“Crudele, di certo…” rispose Zeto; “di certo non è bello essere attaccati senza vedere l’assalitore…”
Arkantos ridacchiò, ed iniziò a guardarsi intorno, ispezionando alcuni cadaveri dei pirati. In quell’istante, un essere, simile ad un uomo, ma alato, “sbucò”, letteralmente, dall’oscurità, battendo le grigie ali piumate e planando vicino ad Arkantos. Arkantos si accorse della sua presenza solo quando gli atterrò vicino.
Arkantos si girò di scatto, ma riconobbe il suo compagno Caladria. Lo abbracciò, anche se lo trovò relativamente difficile, per via delle enormi ali.
“Complimenti” disse Arkantos, guardandosi attorno; “un ottimo lavoro, Teuco…” Arkantos sorrise alla Caladria.
“Ordinaria amministrazione…” disse, ridendo, quasi fosse stato un gioco. Rise anche Arkantos.
“Perdite tra di voi Caladrie?”
“Nessuno. Giusto un paio di feriti, ma si rimetteranno presto. Voi?”
“Ci avete dato una tavolata vuota, non c’era molto da fare…” risero entrambi.
Arkantos riprese ad ispezionare i cadaveri.
“Non è qui” disse Teuco, la Caladria, capendo al volo chi Arkantos cercasse.
“Dov’è Kamos, allora?” rispose, brusco, Arkantos.
“Fuggito. Al suo campo. L’ ho visto personalmente, si è infilato nella boscaglia e si è perso di vista.”
Arkantos si girò, guardando il mare, pensieroso.
“Potremmo attaccare di nuovo come abbiamo già fatto…” disse Teuco.
“No… Kamos non è uno stupido… sa quali sono le armi di Atlantide… adesso avrà dato un arco ad ognuno dei suoi soldati, e gli avrà ordinato di sparare le frecce in aria, nel caso ricapitasse un attacco del genere.”
“Capisco…” Teuco abbassò la testa, ed Arkantos lo imitò. “Non fa niente, nel caso aveste di nuovo bisogni di noi, siamo accampati dietro quel promontorio; non esitate a chiamarci.”
“Non vi preoccupate: Atlantide è in debito con voi.”
Arkantos e Teuco si diedero, vicendevolmente, una pacca sulla spalla. Teuco si girò, fece alcuni passi di corsa e saltò, libandosi nell’aria. Prima che si fosse allontanato, Zeto lo inseguì di corsa, urlandogli: “tanto per informazione… quanti siete?”
“Circa tre migliaia” fu la risposta della Caladria, che continuò il volo fino a perdersi dietro il promontorio roccioso.
“Tre migliaia…” disse, tra se e se, Zeto, meravigliato. “Tre migliaia di Caladrie… che popolo strano, che sono… non trovi, Kan?
“Si, certo… perché Kan?”
“Arkantos è troppo lungo…”
“Zeto, ti prego…” rispose Arkantos, ridendo.
LittleTeo
00mercoledì 17 gennaio 2007 20:05
Capitolo 7°: Atena o Poseidone?


Passarono circa sei ore. Ormai era mattino. Il vero campo atlantideo era stato montato sulla spiaggia, e tutti i (pochi) soldati erano sbarcati. Avevano iniziato a raccogliere i cadaveri, e tale era il numero dei mercenari dei pirati che non bastò un tumulo solo a seppellirli tutti.
Arkantos, come del resto tutti i soldati, si preparò per la battaglia imminente contro le restanti forze di Kamos; la corazza di cuoio, la gorgiera di bronzo, i parastinchi di avorio e la sua lunga lancia dalla punta in ferro, gli facevano rivivere, nei ricordi, le gloriose battaglie del passato.
Egli non pensava tanto a Kamos, quanto all’impegno che avrebbe avuto dopo aver recuperato il tridente di Poseidone: Troia.
Krios aveva detto che Atena gli era apparsa in sogno come messa di Poseidone, ma lui non ne era più convinto. Da quello che accadeva sembrava che Poseidone fosse contro di loro… che Poseidone volesse l’esatto contrario di quello che Atena disse… o meglio, di quello che Atena lasciò intendere.
Ciò aveva un senso.
Probabilmente, il sogno di suo figlio Castore sarebbe stato differente dal suo… lui avrebbe visto Atena camuffata da Poseidone, dato che ella sapeva che l’unico modo di costringere Arkantos a partire era un ordine perentorio di suo padre Krios… il quale ascoltava solo i consigli del dio Poseidone, come ogni Teocrate.
Perciò, Arkantos in quel momento non era in missione per Atlantide, ne per Poseidone… era in missione per Atena. Ed Atena sosteneva le sorti degli Achei, a Troia. E probabilmente Poseidone non era d’accordo alla missione, perché aveva deciso di aiutare le sorti dei troiani, ma non si opponeva apertamente a lui, poiché era ancora in alleanza con Atlantide… si doveva essere così.
Arkantos uscì dalla tenda, soddisfatto, poiché credeva di avere capito per chi agiva e perché. Non immaginava minimamente di quanto fosse sbagliato il suo ragionamento, né in quali affari egli si stava per infischiare.

Nel giro di mezz’ora, l’esercito era pronto. Un centinaio di fanti Opliti, armati di lancia e di uno scudo enorme di rame, e circa centocinquanta Murmilli atlantidei, dotati di spade e corazze, marciarono alla volta del campo dei pirati fenici. In cima alla fila, reggente lo stendardo di Atlantide, c’era il capitano Zeto.
Nonostante il consiglio di Arkantos rivolto a Teuco, si vide comunque volare qualche Caladria in cielo: facevano alcuni volteggi su dove si trovava il campo fenicio, e planavano verso i soldati, riferendo che il campo sembrava deserto, e che non c’era traccia di soldati. Escludevano, comunque, che fossero salpati, consci del fatto che in così pochi non avrebbero potuto governare una nave con a bordo il tridente, inseguiti dalle velocissime navi atlantidee.
La tensione saliva. I soldati avevano paura di proseguire, temendoche ogni loro passo potesse corrispondere ad un’imboscata. Sapevano di essere in superiorità numerica, ma non conoscevano il territorio, ed alcuni tra i soldati più veterani avevano già visto il furore di Kamos in battaglia, e ne erano ancora terrorizzati.
Solo quando arrivarono alle porte del campo, senza incontrare altro che qualche soldato nemico ferito, che veniva medicato e trasportato verso le navi, Arkantos iniziò ad avere dei dubbi. Le Caladrie erano esploratrici espertissime, ed avevano girato tutta l’isola, anche volando radente sotto le fronde degli alberi… dove diavolo erano finiti i pirati?
“Sembra che non ci sia nessuno” disse un Murmillo, appena dietro Arkantos. Ormai le truppe avevano perso la formazione, e si erano sparse attorno alle prime tende del campo. Erano restii, comunque, a toccare le armi lasciate dai fenici, od ad entrare nelle tende.
“Poseidone ci dev’essere favorevole, Ammiraglio Arkantos” continuò il soldato. Era anziano, e sulla pelle portava i segni di innumerevoli battaglie.
“Forse li ha inceneriti tutti… un’enorme nuvola è arrivata e gli ha inceneriti con dei fulmini… Poseidone ne sarebbe capace… l’ha già fatto, in passato…”
Arkantos rispose, schietto; “Dubito che Poseidone si scomodi per così poco, soldato…” mentre parlava, continuava a guardarsi intorno con circospezione. “Ed inoltre, ora non siamo in missione per Poseidone…”
Molti dei soldati in zona si girarono verso di lui: l’argomento era scottante.
“…non preoccupatevi, abbiamo un protettore, lassù.” I soldati tirarono un respiro di sollievo. “Siamo in missione per Pallade Atena… anche lei ha bisogno del nostro aiuto.”
“Atena? Ci vuole a Troia perché teme che gli achei non riescano a sfondare le mura?”
“Probabile” rispose Arkantos. “E non penso che Poseidone ci ostacolerà… in fondo, non è nulla contro di lui.”
“Atena… Beh, certo sarà più bella di Poseidone… e meno scorbutica…” disse Zeto, in tono sarcastico.
Le truppe intorno a lui accennarono delle risate.
“Perché ridete? E’ vero… se Poseidone pensa davvero quello che dicono i Teocrati…”
Fece una buffa interpretazione di un Teocrate, fingendosi grasso e vecchio, che faceva fatica a parlare a camminare: “Affanti… lafforate per Posseidone…”
Tutti i soldati a fianco a lui risero di gusto. Il soldato anziano si avviò verso una tenda e la aprì, per guardare cosa ci fosse dentro. La sua faccia si trasformò da una risata ad una faccia di puro terrore.
Non fece in tempo a fare niente, che tre frecce gli si conficcarono addosso. Cadde all’indietro, sulla dura terra. Tutti i sodati ebbero un lampo di terrore.
Si levarono delle grida. Dalle tende del campo, uscirono decine di pirati armati di archi, che bersagliarono gli opliti e i Murmilli.
Sia Arkantos che Zeto furono colti alla sprovvista. Arkantos cercò di fondarsi su un gruppo di arcieri appena usciti da una tenda. Zeto fu colpito da due frecce al petto, ma, forse per un aiuto provvidenziale di Atena, quasi non si accorse delle ferite, e si fiondò dentro una tenda con alcuni Murmilli, provvidenzialmente trasformati in truppe d’assalto.
Arkantos perse di vista Zeto, ma capì, in pochi minuti, che la battaglia era ormai vinta a loro favore;
gli arcieri nemici, inesperti e poco equipaggiati, cadevano velocemente sotto le lance ferree degli Opliti e le spade di bronzo dei Murmilli. Sembrava, inoltre, da quello che si diceva, che Zeto, seguito solo da cinque uomini, stesse facendo strage...
LittleTeo
00domenica 22 aprile 2007 21:22
Capitolo 8°: Vendetta
Scusate se vi ho lasciato così tanto in attesa (ooooooh... [SM=g27828] ), ma, per impegni maggiori, avevo dovuto abbandonare il racconto... oggi l'ho ripreso.


La battaglia era ormai finita, a favore degli atlantidei. Quasi nessuno dei pirati era sopravvissuto, ed i pochi che lo erano, erano stati fatti prigionieri. Arkantos girava tra le truppe, congratulandosi con loro. Non trovava Zeto.
“Avete per caso visto il capitano Zeto?” chiedeva in giro. “No” era la risposta più comune, alcuni rispondevano “Da quella parte”, mandandolo in giro per nulla…
Qualcuno gli posò la mano sulla spalla.
“Ventisei” disse una voce maschile. Arkantos si girò: aveva i capelli neri sporchi di fango, un gladio spezzato in mano, una corporatura robusta martoriata, qua e la, da ferite più o meno profonde. Anche se la faccia era coperta di sangue, ma era impossibile non riconoscerlo.
“Zeto!” esclamò Arkantos.
“Ventisei” disse, in tutta risposta. Zoppicava.
“Ventisei?”
Zeto alzò la spada rotta, insanguinata. “Si, ventisei… più un cane che mi ha aggredito. Tu quanti?”
“Mi hai battuto… ventidue.”
“Ah!”. Ridettero. Si abbracciarono.
“Uno a zero per me” disse Zeto.


Cinque minuti dopo, Zeto, Arkantos ed altri venti soldati correvano per il pendio. Di sotto, si poteva vedere l’accampamento devastato, dove i soldati bivaccavano e razziavano. Loro, invece, correvano su per quella collina, a strapiombo sul mare.
“Kamos doveva essere in cima… ed era tra loro ed uno strapiombo di 50 metri sul mare. Era in trappola…” pensava Arkantos, correndo, faticosamente; colpa anche della pesante armatura che lo impacciava.
Arkantos e i 20 soldati arrivarono alla sommità della collina. Kamos era li, girato di spalle, verso il mare. I soldati si disposero in formazione, a falange, per evitare una disperata carica di Kamos… ma lui stette fermo, ed ancora fermo, e continuò a stare fermo.
Rimaneva li, a fissare il mare.
Arkantos si fece avanti.
“Oh, atlantideo…” grugnì Kamos.
Arkantos levò la lancia, pronto a colpire.
“Oh, Atlantideo…” ripetè “Tu non sai a cosa vai incontro, andando a Troia…”
“Come faceva a sapere della sua destinazione?” pensò tra se e se Arkantos… ma non proferì parola.
Kamos si girò, rivelando tutta la sua imponenza.
“Ti do un consiglio da amico… tornatene a casa, atlantideo. Io sono uno dei figli di Poseidone… tu credi di sapere tutto sugli dei, avendo come amica la Pallade, Atena… non è così?”
Arkantos restò meravigliato. Zeto lasciò cadere l’arco che aveva in mano. I soldati abbandonarono la formazione.
Quel Minotauro… quel rozzo stupido essere… sapeva un po’ troppo del normale…
“Gli dei sono più intricati e vogliosi di quanto tu non creda…” continuò, ridacchiando, alla smorfia sbalordiata di Arkantos…
“…torna ad Atlantide, o non risparmierò ne la tua casa, ne la tua città, ne tuo figlio!”
Detto questo, si buttò dal dirupo. Fu un attimo.
Tutti gli uomini corsero sul bordo a vedere che fine aveva fatto…
Kamos nuotava, quando sotto di lui, nell’acqua, un’ombra si alzò… divenne sempre più grande… finchè Kamos non ci potè stare comodamente in piedi. Era come un’enorme pesce… addestrato a trasportarlo…
Kamos, a bordo di quella creatura, si allontanò… finchè non svanì all’orizzonte.

“Almeno uno dei figli di Poseidone favorisce ancora le sorti dei nostri nemici.” Disse a Teuco, Zeto e ai suoi generali Arkantos, al campo, nella tenda più grossa ed attrezzata con sgabelli. Le quattro navi erano ormeggiate lungo la spiaggia, e i soldati si preparavano a partire.
“Cosa avresti intenzione di fare, allora?” disse un generale, tra i più anziani.
“Continueremo la navigazione per Troia. Atena e Poseidone ci proteggono… abbiamo sacrificato loro cento buoi, poco fa, presi dall’accampamento dei Fenici…
“Ottima offerta.” Aggiunse Zeto. “Ma hai visto anche tu quello che ho visto io… Kamos si ritiene un figlio di Poseidone, non è… eppure, la creatura che l’ha portato via, che l’ha salvato da morte certa… chi se non Poseidone potrebbe averla evocata?”
Arkantos era in piedi, a differenza di tutti gli altri. Teuco era fermo, pensieroso, e guardava per terra, come se lo avessero appena strigliato; Zeto, a fianco e Teuco, lottava con una delle due ali per stare seduto comodo; gli altri generali erano seduti attorno ad Arkantos, e lo fissavano.
Solo Arkantos era in piedi, e camminava avanti ed indietro.
“Forse Poseidone è contro di noi” disse, riscoperto, Arkantos. “Forse l’intero Olimpo ci rema contro. Ma questo è il nostro destino. Morire o vincere sotto le mura di Troia. Non per Elena, non per Agamennone, non per il feroce Achille… ma per la gloria di Atlantide!”
Si levò un applauso. Zeto applaudì poco vigorosamente, non molto convinto. Teuco si alzò, e parlò per la prima volta alla piccola assemblea.
“Per quanto riguarda a noi? Siamo sotto i tuoi ordini, Arkantos… comandaci ed ubbidiremo.” Si riferiva al suo popolo.
“Potete tornare indietro. Non voglio arrecare altre morti inutile.”
“Ma… Arkantos, noi…”
“Non avevi detto che sareste sempre stati ai nostri ordini?” disse, alterato.
Teuco non esitò un momento, si congedò da Arkantos e si diresse verso l’uscita.
Arkantos lo fermò, pentito. “Un momento!”
Teuco si fermò, e si girò di nuovo.
“Effettivamente, non avevi tutti i torti. Esploratori possono servire… anche se, secondo me, le frecce troiane vi tarperanno le ali…”
Teuco annuì, e si allontanò volando. Piano a piano tutti i generali uscirono dalla tenda, dirigendosi verso le navi.
Arkantos si avvicinò a Zeto. “Amico mio…” disse “Che gli dei lo vogliano o no, Atlantide scenderà in guerra! E noi non possiamo fare nulla per impedirlo…”
Zeto teneva lo sguardo in basso, l’espressione triste e dubbiosa.
LittleTeo
00venerdì 4 maggio 2007 19:15
SECONDA PARTE: TROIA


Capitolo 1°: 10 anni


Canta, o dea, l’ira d’Achille Pelide
rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei
gettò all’Ade molte vite gagliarde
d’eroi, ne fece il bottino dei cani
di tutti gli uccelli –consiglio di Zeus si compiva-
da quando prima si divisero contendendo
l’Atride signore d’eroi e Achille glorioso


Erano passati ormai dieci anni dallo sbarco delle truppe Achee, guidate da Agamennone, signore della Grecia, a Troia, col pretesto della liberazione di Elena, moglie di Menelao, re di Sparta, la cui bellezza superava tutte quelle dei mortali e delle immortali, eccezion fatta forse solo per le grandi dee, quali Era o Afrodite.
Molti eroi combattevano quella guerra, che si sarebbe dovuta protrarre per poco, ma che, per volere degli dei e, indirettamente, degli uomini, perdurava da più di 10 anni.
Si narrava ormai ovunque la furia di Achille, del suo odio contro Agamennone, e delle difficoltà che gli Achei ebbero incocciato senza il suo aiuto, lui, Achille, figlio di Peleo, il più potente in guerra tra i mortali.

------------------------------

Era sera, ormai. In lontananza, sulla costa, si vedevano le luci dell’accampamento degli Achei; una vista impressionante: a perdersi all’orizzonte, luci, infinite, che sembravano non finire mai… e navi, migliaia, che si perdevano a vista d’occhio… l’esercito più imponete che fosse mai visto.

Le navi atlantidee stavano per sbarcare, con l’alta marea notturna. Ad accoglierle, alcuni soldati achei, che erano già stati informati del loro arrivo. Fu difficile per le trenta navi atlantidee approdare sulla spiaggia, tante fitte erano le navi greche…
In tre ore, le navi furono ormeggiate, i soldati sbarcati ed accampati per le poche ore di sonno che restavano. Arkantos, però, ancora girava, in cerca della tenda dell’Atride, Agamennone, per avvisarlo del suo arrivo e dell’aiuto che avevano intenzione di offrirgli.
Non fu difficile per lui trovarne la tenda: gli basto cercare la più grande e più sfarzosa delle residenze, e chiedere del re, del condottiero, che aveva portato alle rive di Troia quell’imponente esercito, il dominatore della Grecia… Agamennone.
La tenda di Agamennone era distinguibilissima dalle altre. Le sue dimensioni erano più simili a quelle di una casa, piuttosto che a quella di una tenda. Costruita su una parte rialzata della spiaggia, era la più alta e la più grossa di tutte. Due uomini di guardia stavano all’entrata. Da dentro, aromi di incenso e di cibo inebriavano l’aria, mentre attorno c’erano molte rastrelliere per le armi, con accanto alcuni soldati addormentati, ancora armati.
Arkantos si avvicinò all’entrata. I due soldati fecero lui il saluto militare e lo invitarono ad entrare, dicendo che Agamennone era pronto per riceverlo.
Non era molto ben presentabile: la tunica stropicciata e sporca dal lungo viaggio in mare, i capelli neri arruffati, i piedi scalzi gli conferivano più un’impressione da mendicante che da condottiero.
Si addentrò nella tenda fino ad arrivare ad una sala lunga e rettangolare. Sui lati erano disposte molte sedie, mentre in fondo alla sala c’era un piccolo trono in legno, decorato in oro e bronzo, con dietro un simbolo formato da due spade intrecciate. Su questo trono sedeva Agamennone.
Il resto della sala era vuoto.
“Arkantos!” disse Agamennone, alzandosi, avvicinandosi all’ammiraglio atlantideo. “Qual buon vento ti porta qui?”
“Vento di speranza” rispose, senza ricambiare l’affettuosità del re “Ho portato alcune centinaia di uomini da Atlantide… pochi, ma ben addestrati.”
“Senza contare la tua grande abilità” rispose Agamennone affettuosamente… troppo affettuosamente. Evidentemente, cercava di tenersi stretti gli alleati. “Quella può ben valere più di diecimila uomini.”
Arkantos non rispose.
“Immagino” riprese Agamennone “che tu abbia ben sentito migliaia di storie su questa guerra… non so quali, ne in che modo, ma penso che illustrarti la situazione attuale sia decisamente meglio…”
Arkantos annuì, senza convinzione.
“Che ne è degli eroi che mi era giunta voce fossero arrivati sin qui?” aggiunse l’atlantideo. “Dove sono il mio amico Odisseo, Aiace Telamone, Achille Pelide…”
Agamennone sbottò.
“Non parlarmi di Achille… ho già avuto abbastanza problemi con lui…” Si interruppe.
“Continua…” gli intimò Arkantos…
“Beh…” rispose indeciso Agamennone “E’ da almeno due settimane che non combatte più. C’è stato un diverbio, tra noi due, tempo fa, per via di una schiava, Briseide… non starò a raccontarti tutto per filo e per segno, però. Ti basti sapere che è pazzo, e che ha deciso di lasciarci… tanto meglio! Non sopportavo le sue arroganze! Crede di essere il più forte, e che non potremmo vincere senza di lui…”
“Per questo” lo interruppe Arkantos “Siete stati costretti, ieri, a difendere le navi, le VOSTRE navi, dall’attacco troiano di Ettore? E che, se non fosse stato per Aiace, saresti già in fuga verso la tua patria, Micene?”
“Come hai queste informazioni?”
“I soldati hanno anche bocca e occhi, oltre alle braccia con cui tengono le spade e le lance.”
“Astuto… molto astuto…” disse Agamennone, grattandosi il mento. “Questa però è una questione al di sopra di noi… una questione divina. Zeus ha favorito loro, ieri, e noi abbiamo resistito. Domani favorirà noi… e vedremo se Troia resisterà… se Ettore resisterà…”
“Non dovresti credere che gli dei cambino bandiera ogni mattina. E non dovresti pensare che Zeus sia l’unico dio dell’Olimpo…”
“Cosa ne vorresti sapere tu, atlantideo? Metteresti forse un dubbio sul re della Grecia?”
“Conosco gli dei molto meglio di te…” disse Arkantos. Si girò verso l’uscita.
“Ah…” si fermò, e si rigirò verso Agamennone, che era rimasto immobile, sbottito… “da quanto tempo va avanti questa guerra che si sarebbe dovuta protrarre per pochi giorni?”
“Dieci anni…” rispose spazientito Agamennone.
“Zeus ti sta proprio favorendo. Ci vediamo domani, al campo di battaglia.” Disse Arkantos, uscendo dalla tenda.



Monese
00domenica 10 giugno 2007 19:57
non c'è stato bisogno di leggerla, dato che ho finito la campagna ieri! comunque trovo bella la tua idea ti scriverne il resoconto completo.

solo una domanda dato che non l'ho letto: i dialoghi gli hai inventati tu o sono quelli veri?
Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 17:26.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com