Capitolo 6°: Kamos
Due uomini nella notte erano seduti attorno ad un fuoco, nel centro di un grande accampamento militare che si erigeva su un’isola sperduta, vicino alle coste della Iberia sudorientale. Attorno a loro, molti soldati si andavano avanti e indietro portandosi dietro armi, scudi ed armature; qualcuno di loro trasportava anche enormi ceste, piene di viveri ed otri colmi d’acqua. Sembrava esserci molto movimento, nonostante fosse notte.
“Missione compiuta, amico mio.” disse il primo uomo, più alto e autoritario rispetto all’altro. Sulla tunica che portava erano appese stellette di bronzo, e sulla stoffa era ricamato il grifone rosso, il simbolo degli ufficiali fenici: era un soldato importante, un ufficiale, a differenza dell’altro, scarno, magro e piccolino, armato di una lancia che stringeva ancora tra le braccia e di uno scudo, appoggiato sulla schiena, che era un semplice milite.
L’ufficiale, dopo una breve pausa, riprese a parlare.
“Allora… hai avuto paura?”
“Si.” Rispose sinceramente il soldato, con voce timida.
“E’ normale… alle prime armi è sempre così… ma ti farai esperienza, vedrai! Perlomeno, potrai raccontare ai tuoi discendenti che hai attaccato e distrutto il porto di Atlantide!”
“Francamente” rispose il soldato “avrei preferito starmene a casa, con i miei discendenti… piuttosto che questo…” fece un sospiro, e tornò a parlare con più tono di prima;
“Ma come fai a chiamarla vittoria! Abbiamo perso almeno metà degli uomini, in quel covo di Atlantidei!”
Da dietro il soldato rombò una voce possente e minacciosa, che pareva una via di mezzo tra un ruggito e un grugnito: “E questo non ti deve importare…”
Sia il soldato che l’ufficiale alzarono la testa: davanti a loro si stagliava un Minotauro, un essere dal corpo di un uomo e dalla testa di un toro. Era alto quasi due metri e mezzo, vestito di una sfavillante corazza di bronzo nero; aveva pelo marrone e ispido sulla testa, che lo rendeva ancora più terrificante, e gli mancava una mano, che era sostituita da una falce tanto affilata da poterci tagliare un capello in quattro. I due uomini, alla sua vista, scattarono sull’attenti.
“Emh… b-buonasera, K-kamos…”
La voce del Minotauro tuonò ancora: “Generale Kamos, quante volte te lo devo ripetere, Dolestron, Generale Kamos!”
Il soldato e l’ufficiale si impietrirono per la paura; “Sissignore… g-generale Kamos… m-mi p-perdoni…”
Kamos si girò, iroso, e si diresse verso la tenda più vicina; fece uno squarcio con la sua mano-falce nella tela, ed urlò dentro, ai soldati che dormivano. “Forza! Alzarsi, fannulloni!”
Tornò dall’ufficiale vicino al fuoco, che era rimasto sull’attenti, spaventato e, allo stesso tempo, incuriosito.
“Sottotenente Dolestron, prepari la sua unità. Si parte per l’altro capo dell’isola.”
Il sottotenente, deglutendo, riuscì ad azzardare un commento: “Come, prego?”
“Le ripeto: svegli i suoi uomini. Ci sono atlantidei, dall’altra parte dell’isola: gli esploratori ne hanno avvistato i fuochi del campo. Vanno annientati.”
L’ufficiale e il soldato furono sorpresi. Il porto di Atlantide era distrutto… come avevano fatto a radunare sufficienti navi da portargli un’esercito alle calcagna? Mentre riflettevano corsero velocemente nella loro tenda a svegliare i soldati, prima che passasse Kamos con la sua “dolce” sveglia: di certo non ne avrebbe aumentato il morale…
Trenta minuti dopo, un esercito di uomini, minotauri, uomini scorpione, e ciclopi usciva dal cancello dell’accampamento, e marciava nella direzione del campo Atlantideo; La marcia durò poco più di dieci minuti.
L’esercito si appostò su una collina, dalla quale si poteva vedere il campo: era composto da una mezza dozzina di tende attorno ad un fuoco, ed alcuni soldati opliti e murmilli erano sdraiati appena fuori dalle tende, dormienti. Non si vedevano le navi con la quale erano arrivati, ma il campo era a portata d’arco.
I pirati, dapprima impauriti, pensando di scontrarsi con l’intero esercito atlantideo, ripresero coraggio, vedendo che le tende erano sufficienti ad ospitare al massimo trecento uomini o poco più.
Senza nessun ordine, tutti i soldati incoccarono le frecce sugli archi, pronti a fare fuoco. Solo Kamos ebbe un presentimento di una trappola. Si mise davanti alle truppe, ed urlò:
“Il tridente rubato dalla statua di atlantide… rammentate?”
Tra i soldati serpeggiò un mormorio indistinto, seguito da un si generale.
“Ebbene… vi sarete chiesti perché abbiamo eseguito una missione così suicida… di attaccare Atlantide, soli, in pieno giorno…”
Il mormorio riprese, più forte di prima.
“Silenzio!” Urlò Kamos. La folla si zittì.
“Il nostro obbiettivo non era Atlantide, ma quel tridente: se qualcosa dovesse andare male, difendetelo a costo della vita! Quel tridente vale quanto tutta la fenicia, la Grecia e Atlantide messi assieme! Se quel tridente verrà perso, vi farò impiccare, uno per uno!”
La folla non diede ascolto tanto alle minacce, che Kamos diceva ogni secondo, ma al valore che aveva attribuito al tridente: sapevano che era importantissimo per Atlantide, dato che ne era il simbolo… ma addirittura così prezioso? Che fosse era oro? Argento e platino? Adamantio? Aveva qualche valore magico?
Non fecero in tempo a rifletterci su, che Kamos diede l’ordine di sparare: dopo un’attimo di titubanza, migliaia di frecce, di cui molte infuocate, volarono verso il campo, che in breve tempo fu distrutto e incendiato; i figuri che erano sdraiati vicino al fuoco erano traforati da almeno una decina di frecce ciascuno, e tutta l’area della accampamento era una distesa sterminata di penna di freccia.
I soldati, dopo aver sparato un paio di volte, corsero giù per la collina per razziare l’accampamento in fiamme. Kamos stette fermo sulla collina. “Possibile che fosse stato così facile?” pensava ancora.
Le urla delle truppe, che erano ormai arrivate all’accampamento, si fermarono di botto. Arrivando sui cadaveri dei soldati che dormivano fuori dalle tende, i pirati si accorsero che non erano cadaveri umani. E non erano neppure cadaveri.
“M-m-manichini? E’ UNA TRAPPOLA!” urlò qualcuno a squarciagola.
Dal mare partirono due frecce infuocate, che illuminarono per un secondo l’area, rendendo visibili quattro navi atlantidee. Si senti un fruscio di vento, che si fece sempre più intenso. In breve, migliaia di frecce colpirono i soldati dal cielo, che non poterono vedere il nemico che li assaliva. Alcuni si rifugiarono sotto i tavoli dell’accampamento, altri riuscirono a fuggire nelle boscaglia, cercando di rientrare al campo base. Ma solo pochi riuscirono a fuggire: era una vera e propia pioggia: ogni centimetro del campo fu tappezzato da dardi, e anche molti di coloro che fuggivano venivano colpiti da frecce scagliate da un nemico che apparentemente sembrava essere nascosto nell’oscurità del cielo. Kamos, ancora sulla collina, fece in tempo a correre anch’esso verso la boscaglia, accompagnato da una cinquantina di soldati.
Zeto, assistendo alla scena dalla Petcheskos, una delle quattro navi Atlantidee al largo dell’isola, accennò un sorriso di stupore e di compiacimento. Migliaia di pirati erano morti in un colpo solo, e non avevano ne la cognizione di chi li attaccasse, ne da dove. L’idea che Arkantos aveva avuto ad Atlantide, prime di salpare, aveva avuto un’ effetto migliore del previsto.
Nell’accampamento e sulla spiaggia non era rimasto più nessuno: tutti quelli che non erano riusciti a fuggire erano morti.
Le quattro navi atlantidee si avvicinarono alla riva e sbarcarono i pochi soldati che trasportavano, tra i quali Zeto ed Arkantos.
“Un bel lavoro, non è vero?” disse Arkantos, scendendo dalla nave.
“Crudele, di certo…” rispose Zeto; “di certo non è bello essere attaccati senza vedere l’assalitore…”
Arkantos ridacchiò, ed iniziò a guardarsi intorno, ispezionando alcuni cadaveri dei pirati. In quell’istante, un essere, simile ad un uomo, ma alato, “sbucò”, letteralmente, dall’oscurità, battendo le grigie ali piumate e planando vicino ad Arkantos. Arkantos si accorse della sua presenza solo quando gli atterrò vicino.
Arkantos si girò di scatto, ma riconobbe il suo compagno Caladria. Lo abbracciò, anche se lo trovò relativamente difficile, per via delle enormi ali.
“Complimenti” disse Arkantos, guardandosi attorno; “un ottimo lavoro, Teuco…” Arkantos sorrise alla Caladria.
“Ordinaria amministrazione…” disse, ridendo, quasi fosse stato un gioco. Rise anche Arkantos.
“Perdite tra di voi Caladrie?”
“Nessuno. Giusto un paio di feriti, ma si rimetteranno presto. Voi?”
“Ci avete dato una tavolata vuota, non c’era molto da fare…” risero entrambi.
Arkantos riprese ad ispezionare i cadaveri.
“Non è qui” disse Teuco, la Caladria, capendo al volo chi Arkantos cercasse.
“Dov’è Kamos, allora?” rispose, brusco, Arkantos.
“Fuggito. Al suo campo. L’ ho visto personalmente, si è infilato nella boscaglia e si è perso di vista.”
Arkantos si girò, guardando il mare, pensieroso.
“Potremmo attaccare di nuovo come abbiamo già fatto…” disse Teuco.
“No… Kamos non è uno stupido… sa quali sono le armi di Atlantide… adesso avrà dato un arco ad ognuno dei suoi soldati, e gli avrà ordinato di sparare le frecce in aria, nel caso ricapitasse un attacco del genere.”
“Capisco…” Teuco abbassò la testa, ed Arkantos lo imitò. “Non fa niente, nel caso aveste di nuovo bisogni di noi, siamo accampati dietro quel promontorio; non esitate a chiamarci.”
“Non vi preoccupate: Atlantide è in debito con voi.”
Arkantos e Teuco si diedero, vicendevolmente, una pacca sulla spalla. Teuco si girò, fece alcuni passi di corsa e saltò, libandosi nell’aria. Prima che si fosse allontanato, Zeto lo inseguì di corsa, urlandogli: “tanto per informazione… quanti siete?”
“Circa tre migliaia” fu la risposta della Caladria, che continuò il volo fino a perdersi dietro il promontorio roccioso.
“Tre migliaia…” disse, tra se e se, Zeto, meravigliato. “Tre migliaia di Caladrie… che popolo strano, che sono… non trovi, Kan?
“Si, certo… perché Kan?”
“Arkantos è troppo lungo…”
“Zeto, ti prego…” rispose Arkantos, ridendo.