00 29/06/2014 03:26

Stasera, dopo aver sfogato i nostri impulsi in una jam-session/tributo ai Pearl Jam, ci siamo accucciati a bere una boccia, a far due brasche e a raccontarci un po’.
Siam finiti a parlare di “lavorare una vita”;
L’argomento è peso ma è piuttosto palese che, a meno che uno non faccia il mestiere che gli piace o per cui nutre una gran passione, questo sistema sociale con il lavoro ti limita,ti schiaccia,ti illude e ti ammazza.
Il punto centrale non era il lavoro in se..il punto era cosa si fa pur di lavorare..e dove ci porta il lavoro che facciamo, nei fortunati casi in cui riusciamo a farlo per 40 anni e più.
Lavorare una vita?..lavorare per cosa?..sacrificare quanto?..rinunciare a cosa?..per arrivare dove?..
Ciò che viene considerata una cosa normale..un opportunità..alla fine non è una sorta di controllo?
Alla fine non diventiamo schiavi di questo? Non siamo costretti a fare salti mortali,a spossarci,a svuotarci,tutto per portare a casa il pane? Non ci porta via tempo e vita che potremmo godere in altro modo?
Utopie..forse..chissà..

Alla fine la mia amica Manu, che nel frattempo si era recata in saletta biblio, torna con un libro tra le mani, si siede e ci legge questa cosa:


“Scintilla”

“Mi hanno sempre irritato tutti gli anni, le ore i
minuti che gli ho regalato lavorando come un mulo,
mi ha fatto seriamente male alla testa,
mi ha fatto male dentro, mi ha stordito
e mi ha fatto diventare pazzo - non riuscivo ad accettare
questi miei anni assassinati
eppure i miei compagni di lavoro non davano segni di
agonia, anzi molti di loro sembravano addirittura soddisfatti,
e vederli così mi faceva impazzire quasi quanto
quel lavoro monotono e insensato.

I lavoratori sottostavano,
il lavoro li annientava, venivano
racconti col cucchiaino e buttati via.

Mi irritava ogni minuto, ogni minuto mentre veniva
mutilato
e nulla alleviava la noia.

Ho valutato l'ipotesi del suicidio.
Mi sono bevuto le poche ore di libertà.

Ho lavorato per decenni.

Ho vissuto con la peggiore specie di donne,
e loro hanno ucciso
quello che il lavoro non era riuscito ad uccidere.

Sapevo che stavo morendo.
Qualcosa dentro mi diceva: continua così, muori, spegniti,
diventa come loro, accettalo.
E poi qualcos'altro dentro diceva: no, salva un pezzetto
minuscolo.
Non importa che sia molto, basta solo una scintilla.
Una scintilla può incendiare un'intera
foresta.
Solo una scintilla.
Salvala.

Penso di esserci riuscito.
Sono fiero di esserci riuscito.
Che stramaledetta
fortuna.”


E’ una poesia di Charles Bukowski.
Abbiamo brindato alle sue parole..e ringraziato la Manu con sguardi di apprezzamento al suo acume.
Alcuni avevano il sorriso tirato..ma altri hanno accarezzato quella scintilla, consapevoli di averla ancora viva dentro di loro..me compreso.
Anche alcuni di noi hanno conservato integra quella scintilla.
E tutti abbiamo pensato “Che stramaledetta fortuna!”


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"Vivo tra lo Stato Sovrano della Realtà e la Repubblica Popolare del Sogno..."