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Se ne va alla vigilia del nuovo campionato Carlo Mazzone: record di panchine in Serie A, ben 792

Ultimo Aggiornamento: 19/08/2023 17:28
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19/08/2023 17:28
 
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È morto Carlo Mazzone, aveva 86 anni.
I suoi campioni: da Totti a Baggio, da Pirlo a Pep

Ci ha lasciati l'ex tecnico di Serie A: aveva 86 anni e non allenava dal 2006.
Se ne va portando con sé il record di panchine in Serie A: 792


Andrea Schianchi


Il mondo del calcio è in lutto. È morto Carlo Mazzone, tra gli allenatori più iconici del pallone italiano. Aveva 86 anni e se ne va portando con sé il record di panchine in Serie A: 792. Ci vorrebbero trecento pagine, e forse di più, per raccontare chi è stato. Ha vissuto mille esistenze, ha attraversato le esperienze schivando i pericoli e fiutando i tranelli, si è fatto condurre dall’unica stella polare che mai lo abbia tradito: la saggezza popolare. Già, perché per dire chi è stato Carletto Mazzone si deve partire dalle radici, dalla Roma del popolo, la sua Roma, in cui si mescolava un po’ di Alberto Sordi e un po’ di Carlo Verdone. Lui era così, quando allenava e quando stava in panchina. Ve la ricordate la famosa scena del 30 settembre 2001, quando corse sotto la curva dell’Atalanta dopo che il suo Brescia aveva segnato il gol del 3-3? Pareva di vedere un film. Solo che Mazzone non era un attore, ma recitava la parte di se stesso: così era stato, così era e così sarebbe rimasto. Verace, ecco l’aggettivo che forse più lo definisce. “Se famo tre a tre vengo sotto ‘a curva” gridò, dopo essere stato insultato per tutta la partita, mentre Roberto Baggio disegnava il gol del pareggio. E poi, rivolto all’arbitro Collina, nonostante fosse ancora travolto da un destino che non si aspettava, con lucidità e onestà, disse: “Buttame fori, me lo merito!”.

PERSONAGGIO — Sarebbe sufficiente rivedere quelle immagini per tracciarne i contorni del personaggio. E però sarebbe ingiusto ridurlo soltanto a questo, perché Sor Carletto era anche altro. Molto altro. Innanzitutto era un campione di umanità, come testimoniato dalla maggioranza dei giocatori ai quali ha insegnato il mestiere. Era uno schietto che non si nascondeva dietro le parole, ma le urlava in faccia all’interlocutore: se qualcosa non gli stava bene, lo diceva chiaro e tondo. Difficile avere da lui un “non so”, un “mi ci lasci pensare”. Se c’era l’idea, quella gli saliva immediatamente alle labbra e non c’era verso di tenerla segreta. Come quando il presidente della Roma Franco Sensi lo avvicinò e gli sussurrò: “Carlo, c’è la possibilità di comprare Litmanen, che facciamo?”. E lui: “Perché prendere Litmanen e buttare i soldi? Abbiamo il ragazzino”.

RAGAZZINO — Quel ragazzino, che lui coccolava con gli occhi, era Francesco Totti. Per il talento ha sempre avuto particolare. Da allenatore della Fiorentina valorizzò quello di Giancarlo Antognoni, alla Roma scoprì quello di Totti, al Brescia fece crescere quello di Pirlo accanto a quello di Roberto Baggio, a Cagliari affinò quello di Enzo Francescoli. Ripeteva: “La tecnica è il pane dei ricchi, la tattica è il pane dei poveri”. E quando gli dicevano che lui era il Trapattoni dei poveri, visto che allenava spesso squadre di bassa classifica, rispondeva così: “No, è Trapattoni che è il Mazzone dei ricchi”.

TRADIZIONE — Le sue idee tattiche erano legate alla tradizione, il libero, la difesa dura e grintosa, il contropiede come arma letale. A questa formula, che è poi ancora oggi la formula della maggior parte degli allenatori italiani, univa la furbizia. Metà anni Novanta, lui guida la Roma che si schiera con il 5-3-2, modulo lanciato da Nevio Scala al Parma e da Osvaldo Bagnoli al Genoa. Poiché i giornalisti romani lo massacravano per un eccesso di difensivismo, lui invertì i numeri e improvvisamente tornò il sereno: “Il mio non è 5-3-2, ma 3-5-2. I due laterali sono all’altezza dei centrocampisti”. Vero o no che fosse, da quel momento, tutti i cronisti cominciarono a scrivere che si trattava di 3-5-2, e ancora oggi ci si comporta così. Gli bastava una battuta per mettersi in saccoccia un potenziale avversario. La sfida lo stimolava, ne aveva bisogno come dell’aria, e pazienza se gli mandava la pressione alle stelle. Amava dire che esistono due Mazzone, uno calmo e sereno che allenava durante la settimana e uno che, all’improvviso, come se fosse stato il fratello gemello, si presentava al campo la domenica e ne faceva di tutti i colori.

GIRO D'ITALIA — Sor Carletto ha compiuto un autentico giro d’Italia delle panchine ma, a parte quella della Roma, mai gli è capitata quella di una grande squadra. Non perché non possedesse le qualità per guidare un gruppo di campioni, e che ci vorrà mai? Piuttosto lo hanno tradito il suo carattere troppo sanguigno e la lingua, a volte, troppo lunga. Riuscireste a immaginarlo, impettito, in giacca e cravatta, seduto sulla panchina dell’Inter, del Milan o della Juve? No, lui era da arene più popolari, da teatri di provincia dove si arriva con una compagnia scalcagnata e però si riesce a far divertire il pubblico e poi si finisce la serata in trattoria a dir battute. Ecco, probabilmente, a conti fatti, Sor Carletto è stato vittima del suo stesso personaggio.

PACCA SULLA SPALLA — Tantissimi sono i giocatori che gli devono qualcosa. Un consiglio, un rimprovero, una semplice pacca sulla spalla gli bastavano per trasmettere ciò che voleva dire. Con Roberto Baggio fu amore a prima vista. Lo volle a tutti i costi al Brescia nel 2000, lo convinse e gli regalò uno splendido finale di carriera. “È un amico che la domenica mi fa vincere” diceva Sor Carletto, fedele alla massima che gli allenatori migliori sono quelli che fanno meno danni. Il calcio è dei calciatori, ripeteva, questo non dimenticatelo mai. Forse non gli sarebbero piaciute le partite di oggi, pressing di qua e pressing di là, velocità folle, zero spazio al talento, al dribbling, all’invenzione, e forse anche per questo ha scelto di alzarsi dalla panchina e rientrare negli spogliatoi.

Fonte: Gazzetta dello Sport
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